giovedì 7 febbraio 2008

Amazzoni e Valchirie le donne guerriere



AMAZZONI


In nome in greco significa "coloro che non hanno seno", ma nel regno d’Abomey, sono esiste realmente.

Le donne guerriere venivano tradizionalmente governate da due regine, una della pace (politica interna) e una della guerra (politica "estera"). Tra le regine più conosciute si ricordano Mirina e Pentesilea.
In Geografia XI.5.4-5, Strabone descrive il costume delle Amazzoni di compiere, ogni primavera, un visita nel territorio del popolo vicino dei Gargareni i quali si offrono ritualmente per accoppiarsi con le donne guerriere affinché possano generare dei figli. L'incontro avviene in segreto, nell'oscurità, perché nessuno dei due amanti possa conoscere l'identità dell'altro.
La sorte della prole muta a seconda del sesso del nascituro. I maschi, secondo Strabone, vengono rimandati nel luogo d'origine e ogni gargareno adulto adotta un bambino senza sapere se sia o meno suo figlio; le femmine, invece, rimangono con le madri e vengono allevate ed educate secondo i loro costumi e istruite, in particolare, nell'arte della caccia e della guerra.
Le armi principali delle Amazzoni sono l'arco, l'ascia bipenne ed uno scudo particolare, piccolo ed a forma di mezzaluna, chiamato pelta.
Prima di ogni battaglia suonano il sistro, uno strumento che producendo un suono limpido e cristallino, non può avere lo scopo di intimorire il nemico, ma solo quello di ingraziarsi gli dèi.
Il combattimento a cavallo è la loro specialità. Selezionano i loro animali e mantengono con loro un rapporto di affiatamento totale che le rende delle perfette centaure; cavalcano stalloni, nel periodo in cui i Greci si accontentano di pony.
Sono famosi i loro giochi Targarèi, dei quali narra Eumolpo: cinquanta imbarcazioni, chiamate titalnès, si affrontano sul Termodonte: scagliate una verso l'altra a velocità folle, vincono quelle i cui campioni - detti targaira, amazzoni in piedi sulle barche che impugnano delle aste - riuscono a sostenere l'impatto senza cadere in acqua. Si procede così a eliminazione finché non c'è un'unica vincitrice, che viene proclamata la prediletta di Afrodite (anche questo è insolito: normalmente le Amazzoni veneravano la Dea Madre, che può essere identificata con Cerere, ed Artemide.

Sulla base delle fonti classiche, le Amazzoni vivono nella Scizia, presso la palude Meote[5] o in un'area imprecisata delle montagne del Caucaso da cui sarebbero migrate, successivamente, sulla costa centro-settentrionale dell'Anatolia (o viceversa da questa in Scizia).
Eschilo, nella sua tragedia Prometeo incatenato[6], sposa l'origine caucasica e accenna alla migrazione quando fa profetizzare, da Prometeo, la sorte di Io. Alla fanciulla - trasformata in giovenca, secondo il mito, e che sta disperatamente fuggendo dal castigo di Era - viene rivelato il lungo viaggio che ancora l'attende e alla fine del quale raggiungerà l'Egitto, dove sarà liberata, non prima, però, di aver visitato vari luoghi dell'Asia occidentale tra cui i monti del Caucaso e la palude Meote dove vivono le Amazzoni.
Le donne guerriere, secondo il titano, migreranno successivamente nell'Anatolia fondando la città di Temiscira presso il fiume Termodonte[7] nella regione del Ponto.
Erodoto le colloca[8], invece, in Scizia presso il fiume Tanai[9] cercando di coniugare, così come già accennava Esiodo, i vari racconti mitologici degli scontri fra gli eroi greci e le Amazzoni di Temiscira[10] con i resoconti etnografici dell'epoca sui Sarmati, una popolazione nomade di etnia iranica, le cui donne combattevano con gli uomini a cavallo[11], vestivano come loro e non si sposavano prima di aver ucciso un nemico in battaglia[12].
Erodoto, contrariamente a Eschilo, fornisce un elaborato racconto della migrazione delle Amazzoni, sconfitte dai Greci, dall'originale sede di Temiscira fino alla palude Meote ove si sarebbero unite ad un gruppo di giovani maschi Sciti migrando, successivamente, assieme a costoro in una zona imprecisata lungo il corso del fiume Tanai. In quel luogo, i loro figli avrebbero dato origine ad un unico popolo: i Sauromati (Sarmati).
La fusione fra le due popolazioni avrebbe originato, tra i Sarmati[13], una ginecocrazia ovvero una società matriarcale secondo alcuni autori classici fra cui Plinio il Vecchio [14].
Strabone, qualche secolo dopo, nella sua Geografia[15], colloca ancora il popolo delle Amazzoni in quell'oriente favoloso per l'uomo greco che comprende Scizia, Persia e India, parimenti abitato da popoli reali e fantastici, specificando, però, che le sue fonti sono in disaccordo indicando due regioni distinte.
Secondo Teofane di Mitilene che avrebbe compiuto, come riferisce Strabone, una spedizione in quei luoghi, le Amazzoni vivrebbero ai confini settentrionali dell'Albania caucasica[16] in quanto separate dal fiume Mermadalis[17] dalle terre degli Sciti e di altre popolazioni nomadi del Caucaso[18].
Secondo altre due fonti di Strabone, gli storici Ipsicrate e Metrodoro di Scepsi, le Amazzoni abiterebbero una valle fra i Monti Cerauni, nell'Armenia, e confinerebbero con i Gargareni, un popolo costituito esclusivamente da individui maschi con cui le Amazzoni si accoppierebbero per assicurarsi la sopravvivenza.


















Le Amazzoni sono citate frequentemente nella letteratura classica greca. Oltre alle descrizioni etnografiche di autori come Erodoto, Strabone, Diodoro Siculo che cercano di coniugare mito e storiografia, ma senza operare una netta distinzione l'uno dall'altra, vi sono naturalmente quelle più nettamente poetiche e mitologiche. Uno dei riferimenti epici più antichi è sicuramente quello nell'Iliade in cui sono menzionate due volte.
In Iliade III.188-190, Priamo ricorda di aver combattuto le Amazzoni come alleato di Otreo e Migdone, due sovrani della Frigia (Turchia nord-occidentale). Le Amazzoni, ricorda Priamo, erano «ὰντιάνεραι» (eguali ai maschi, forti come i maschi), ma non erano numerose come gli Achei.
Priamo cita anche il luogo della battaglia che appare concorde con i riferimenti mitografici alle Amazzoni del Ponto: le rive del fiume Sangario (Σαγγάριος in greco, Sangarius in latino) che è il nome antico del fiume Sakarya nella regione storica della Frigia.
In Iliade IV.186[19], la lotta contro le Amazzoni è una delle imprese compiute da Bellerofonte che fa da perfetto contraltare, essendo le Amazzoni le più forti fra le donne, ad un'altra impresa dell'eroe, menzionata nel verso precedente: lo scontro con i Solimi[20] contro i quali Bellerofonte avrebbe combattuto la più dura battaglia con uomini[21].
Nell'Etiopide, un poema epico di Arctino di Mileto risalente al VII secolo a.C. e molto noto nell'età classica, ma di cui ci è pervenuto solo un breve frammento originale e un riassunto del V secolo a.C., veniva narrata la partecipazione delle Amazzoni, guidate dalla loro regina Pentesilea, alla guerra di Troia come alleate, questa volta, di Priamo. Il fulcro del poema era lo scontro fra Achille e Pentesilea che si concludeva con la morte di quest'ultima per mano dell'eroe greco e la restituzione del suo corpo ai Troiani da parte di un Achille commosso e pieno di ammirazione verso l'amazzone tanto da venir accusato di tradimento da un suo compagno d'arme.
I sentimenti di Achille nell'Etiopide, così prossimi all'amore verso la fiera nemica, e la tragicità intrinseca della vicenda, erano ideali per essere trasformati, durante il Romanticismo, in un intenso dramma psicologico d'amore e morte. E così, proprio, lo svilupperà il drammaturgo tedesco Heinrich von Kleist nella sua tragedia Penthesilea (1808) in cui una regina delle Amazzoni resa folle dal contrasto insanabile fra l'amore e l'orgoglio sbrana, assieme ai suoi cani, il corpo di Achille.













Tralasciando la mitologia e passando alla storia, troviamo un corpo militare delle Amazzoni veramente esistito.Il re Houégbadja aveva gia organizzato un distaccamento di “cacciatrici di elefanti” facente funzione anche di guardia del corpo.Il figlio del re Agadia, ne fece delle vere e proprie guerriere.E. Chaudoin, in "Tre mesi in cattività nel Dahomey", nel 1891 le descrisse nel modo seguente:”Vecchie o giovani, brutte o belle, sono meravigliose da contemplare. Solidamente muscolose come i guerrieri neri, la loro attitudine è disciplinata e corretta allo stesso tempo, allineate come alla corda”.Alcune donne si arruolavano volontariamente, altre, insofferenti della vita matrimoniale e di cui mariti si lamentavano col re, erano arruolate d'ufficio. Il servizio militare le disciplinava e quella forza di carattere che mostravano nella vita matrimoniale e poteva così esprimersi nell'azione militare.Sul campo di battaglia, le Amazzoni proteggevano il re e prendevano parte attivamente ai combattimenti, sacrificando la loro stessa vita, non potevano sposarsi e avere figli, finchè rimanevano nell’esercito.Forgiate per la guerra per principio a questa dovevano consacrare lo loro vita."Noi siano degli uomini, non delle donne. Chi ritorna dalla guerra senza aver conquistato deve morire. Qualora ci ritirassimo in battaglia, la nostra vita sarebbe alla mercé del re. Quale che sia la città da attaccare, noi dobbiamo conquistarla o sotterrarci nelle sue rovine. Guézo è il re dei re. Finché sarà in vita noi non temeremo nulla". "Guézo ci ha donato nuova vita. Noi siamo le sue donne, le sue figlie, i suoi guerrieri. La guerra è il nostro passatempo, essa ci veste, essa ci nutre" Spesso ubriache di gin, abituate alle sofferenze e pronte ad uccidere senza preoccuparsi della propria vita, combattevano valorosamente e precedevano sempre le truppe incitandole al combattimento. Nel 1894, all'inizio della guerra fra le truppe del generale Dodds e quelle del regno di Abomey, l'armata contava circa 4000 amazzoni, suddivise in tre brigate. "Esse sono armate di daga a doppio taglio e di carabine Winchester. Queste amazzoni operano prodigi di valore; vengono a farsi uccidere a trenta metri dai nostri schieramenti..." (Capitano Jouvelet, 1894). Il corpo delle amazzoni fu dissolto dopo la sconfitta del regno d'Abomey, dal successore di Gbêhanzin, Agoli Agbo.
















VALCHIRIE

Nella mitologia nordica erano donne guerriere che avevano il compito di percorrere i campi di battaglia per raccogliere gli eroi caduti e condurli al cospetto di Odino. Dalla pelle bianchissima, indossavano armature lucenti e maneggiavano la spada con maestrìa. Si credeva che potessero determinare gli esiti delle battaglie.Molto abili nel cavalcare, dopo aver attraversato i campi di battaglia ed aver raccolto gli eroi caduti, li conducevano nel Valhalla dove li ricevevano offrendo loro dell'idromele. Gli eroi caduti venivano accolti nel Valhalla, un luogo mitico adornato da scudi ed armi, e quivi impegnavano il tempo nella pratica delle armi ed in interminabili banchetti in compagnia delle Valchirie.Il loro capo è Brunilde.
Brunilde (il cui nome significa “guerriera con la corazza”) è la figlia di Budli, alla quale Odino affida il compito di dirimere una contesa tra due sovrani, Hjalgunnar e Agnar; contro la volontà del dio, Budli decide a favore del secondo e viene pertanto condannata a cadere in un sonno eterno, dal quale viene liberata da Sigurdh (Sigfrido, nella mitologia germanica). Brunilde e Sigfrido si innamorano, ma questi beve una pozione magica che lo induce a sposare Gudrun; Brunilde si vendica uccidendolo, ma, presa da disperazione, si uccide a sua volta.

Nel Nibelungenlied Brunilde è la bellicosa regina d’Islanda che sottopone i suoi pretendenti a una serie terribile di prove di forza, decisa a sposare chi saprà combattere meglio di lei. Il re dei burgundi, Gunther, è innamorato di lei e, per riuscire a conquistarla, chiede aiuto a Sigfrido; questi, resosi invisibile grazie al cappuccio dell’invisibilità sottratto ai nibelunghi, si sostituisce a lui nell’ultima prova e sconfigge Brunilde. Scoperto l’inganno di cui è stata vittima, Brunilde, ormai sposa di Gunther, si vendica di Sigfrido, che farà uccidere da Hagen.

domenica 3 febbraio 2008

Artù e Merlino

LA LEGGENDA DI ARTÙ
La leggenda di Re Artù è uno dei grandi misteri del medioevo. Chi di noi non ha mai sognato di poter far parte dei suoi mitici cavalieri e di intraprendere le loro eroiche imprese? Sognare è bello, eppure la realtà è un pò diversa da come potremmo immaginarla. Per prima cosa, c'è da chiarire che re Artù probabilmente non è mai esistito. Comunque, non come lo immaginiamo noi. Egli potrebbe essere solamente frutto della fantasia degli scrittori medievali, primo di tutti Chrétien de Troyes, a cui attribuiamo i primi romanzi arturiani e che visse nell'XI secolo. Compose le sue opere alla corte di Maria di Champagne e poi di Filippo di Fiandra tra il 1160 ed il 1185. A tale periodo quindi risale la genesi del "Chevalier de la Charrette", il primo romanzo in cui compare Artù e con lui, il prode Lancillotto, la bella Ginevra e l'oscuro mago Merlino. Chrétien non riuscì a terminare questo scritto, così il finale è opera di un altro scrittore del tempo, Geoffroy de Lagny. Ma Chrétien de Troyes però scrisse almeno un altro romanzo con protagonisti i cavalieri della tavola rotonda, "Perceval du le conte du graal", in cui si accentua la spiritualizzazione dell'etica cavalleresca. I cavalieri vanno qui alla ricerca del Graal, divino simbolo di rinascita, ma ancora non è la coppa che accolse il sangue di Cristo. Lo diventerà in seguito, con gli scrittori successivi che riprenderanno in mano le leggende arturiane, rimaneggiandole, riadattandole, reinterpretandole a loro piacimento. Misterioso e ancora profano con Chrétien, il Graal diventerà il sacro calice che noi tutti conosciamo nel XIII, con Robert de Baron.
Lentamente, le avventure dei cavalieri della tavola rotonda assumono una dimensione escatologica e questi eroi diventano, non solo difensori di una terra di frontiera contro gli attacchi dei barbari infedeli, ma anche garanti di un ordine cosmico. Inoltre, la chiesa, sempre più preoccupata per via della diffusione nell'occidente di questi romanzi, in cui spiccava spesso il tema dell'amore cortese, che vedeva giovani cavalieri innamorarsi di belle dame già sposate, cercava di cristianizzare ulteriormente tali opere, secondo la sua filosofia. Per questo, ad esempio, si scrisse il "Perlesvaus", un rifacimento del romanzo arturiano, in cui Lancillotto confessa il proprio peccato, Ginevra muore e i cavalieri di re Artù si fanno crociati. Qui, Perlesvaus (Perceval) diventa una specie di Cristo-cavaliere. Ed una maggiore accentuazione di questo ideale si avrà con l'elaborazione del personaggio di Galaad, novello Cristo della cavalleria, figlio di una vergine, l'unico a cui sarà concesso di vedere il Graal, ma per questo muore. Dai primi romanzi di Chrétien de Troye, il romanzo cavalleresco ne farà di strada nei secoli successivi, ispirando molti scrittori del basso medioevo e dell'età moderna, fino ai giorni nostri. Per cui, si capisce, con tutti questi rifacimenti è difficile risalire all'originale storia arturiana, a ciò che era Artù inizialmente. Il re che conosciamo noi è il risultato di tutte queste reinterpretazioni elaborate nell'arco di quasi mille anni.
Nell'ammettere l'esistenza storica di re Artù, dovremmo fare un piccolo sforzo d'immaginazione, in quanto dovremmo togliergli la brillante armatura cavalleresca e trasportarlo in un altro ambiente storico-culturale, quello dell'Inghilterra del V/VI secolo d.C. Quindi, ben cinquecento anni prima del tempo che immagineremmo noi leggendo i romanzi di Chrétien de Troyes. Non nel vero e proprio medioevo cavalleresco, ma negli ultimi attimi di vita dell'Impero Romano. Nel 476 d.C. termina il grande impero che aveva unito tutta l'Europa, sommerso dalle invasioni dei barbari, per l'esattezza Goti e popolazioni germaniche. L'imperatore Adriano, aveva esteso l'Impero fino all'estremo nord, fino alla Gran Bretagna, costruendovi il famoso Vallo proprio per arginare il pericolo costituito dagli invasori, popolazioni locali pagane. Nel V secolo ormai l'Impero non aveva più la forza di resistere e venne lentamente divorato dall'esterno, ma anche dall'interno (in quanto già da molti anni i germanici facevano parte dello stesso esercito romano, ed alcuni riuscirono anche a diventare generali). Ciò fu inevitabile. Ma alcuni soldati e generali, anche dopo il 476, non deposero le armi, continuando per qualche decennio a combattere con l'idea di ricostituire l'Impero e di proteggere la religione cristiana (che era diventata religione ufficiale dell'impero con Teodosio, nel 391). Uno di questi potrebbe essere stato proprio il nostro Artù, che resistette alle invasioni dei Sassoni e degli altri barbari, che nel V secolo stavano invadendo l'Inghilterra, divenendo così un eroe, una leggenda. In effetti, già Nennio, monaco gallese dell'800 d.C., aveva menzionato un certo re guerriero di nome Artù nella sua Historia Britonum. E secondo gli annali della Cambria, opera di anonimi del X secolo, l'anno di morte di Artù sarebbe il 537 d.C. Per questo, molti storici ritengono che alla base della leggenda ci sia un fondo di verità storica e la mitica Camelot potrebbe essere ora Cadbury Castle, dove gli archeologi scoprirono negli anni '60 le rovine di una fortezza capace di poter ospitare un migliaio di persone. Avalon, l'isola sulla quale dovrebbe ancora trovarsi il corpo del grande re, invece potrebbe essere il colle di Glastonbury Tor, nel Somerset, che in tempi antichi era quasi interamente circondato d'acqua. Il nome Artù, inoltre, potrebbe solo essere un appellativo. In passato era usuale dare ai valorosi degli appellativi per caratterizzarli ed esaltarne le qualità fisiche o guerriere. Infatti, il nome Artù potrebbe derivare da "Artorius", che nella lingua celtica voleva dire "orso". In tal senso, un guerriero così chiamato, aveva l'orso come suo "animale guida" e ne acquistava le qualità, come la forza e la grandezza. Conosciamo un signore della guerra gallese del V secolo, Owain Ddantgwyn, che veniva proprio chiamato "orso" e che fu ucciso in battaglia dal nipote, proprio quasi come nei romanzi arturiani. Oppure, potremmo anche identificare il mitico re con un certo personaggio di nome Riotamo (in celtico: "re supremo"), che nel 468 guidò le sue truppe in Gallia, ma fu tradito e sconfitto in battaglia. Ma dietro al personaggio di re Artù non c'è solo un re ed un eroe. Artù è anche un simbolo di rinascita e di vita eterna. I Normanni nell'XI secolo sconfissero i Sassoni che dominavano in Inghilterra. La corte anglo-normanna poté così attrarsi la simpatia delle popolazioni bretoni diffondendo le loro leggende, ma col rischio di risvegliare in queste il sogno di restaurazione del potere celtico, proprio fondato sul mito della "scomparsa" di Artù. Nei romanzi infatti è scritto che un giorno il grande condottiero ritornerà ancora a regnare alla testa delle sue genti. E probabilmente per sedare queste speranze, nel 1191 venne sparsa la voce del ritrovamento della sua tomba. Ciò mise infatti fine ad ogni speranza di un ritorno del re, ma nello stesso tempo, rese il personaggio ancor più popolare in Bretagna, spingendo la corte anglo-normanna a identificarsi con la corte di re Artù.


IL MAGO MERLINO
Il mago Merlino invece era il mago di corte e consigliere del re Artù. Personaggio molto misterioso e oscuro per molti versi era una sorta di Rasputin di quei tempi. Era profeta, mago, consigliere e si diceva che potesse viaggiare nel tempo. In realtà dev'essere stato un druido. I druidi erano i sacerdoti delle popolazioni celtiche che vivevano in Gallia ed in Britannia nei fino all'espansione del Cristianesimo in quelle terre. Essi praticavano la magia nei boschi, a contatto con la natura e, si dice, avevano molti poteri soprannaturali, tra cui anche quello di vedere nel futuro e rendersi invisibili. Le poche informazioni che abbiamo le troviamo sugli scritti degli scrittori latini e greci di quel periodo (II/IV secolo d.C.). Ma anche il personaggio di Merlino, così come quello del suo re, rimane ancora avvolto dalle nebbie del mistero.









Le nebbie di Avalon

Avalon è un'isola leggendaria, situata da qualche parte nelle isole britanniche, famosa per le sue belle mele. Secondo alcune teorie, la parola Avalon è una traslitterazione inglese del termine celtico Annwyn, cioè il regno delle fate, o Neverword. Nella sua Historia Regum Britanniae Goffredo di Monmouth ha dato al nome il significato di Isola delle Mele, cosa molto probabile, visto che in bretone e in cornico il termine usato per indicare mela è Aval, mentre in gallese è Afal, pronunciato aval. Il concetto di un'"isola dei beati" è presente anche altrove nella mitologia indoeuropea, in particolare nel Tír na nÓg e nelle greche Esperidi (quest'ultima famosa per le sue mele).
Secondo alcune leggende (cfr. il poeta Robert de Boron), Avalon sarebbe il luogo visitato da Gesù e da Giuseppe d'Arimatea e quello dove, proprio Giuseppe d'Arimatea, dopo aver raccolto il sangue di Cristo in una coppa di legno (il Sacro Graal), si rifugiò, fondando anche la prima chiesa della Britannia. Oggi l'isola di Avalon è normalmente associata alla cittadina di Glastonbury, in Inghilterra. Sarebbe anche il luogo in cui fu sepolto Re Artù, trasportato nell'isola su una barca guidata dalla sorellastra, la Fata Morgana. Secondo la leggenda, Artù riposa sull'isola, in attesa di tornare nel mondo quando questo ne sentirà nuovamente il bisogno.
Per alcuni Avalon andrebbe identificata con Glastonbury. A partire dagli inizi dell'XI secolo, prese corpo la tradizione secondo cui Artù fu sepolto nella Glastonbury Tor, che in passato era circondata dall'acqua, proprio come un'isola. Durante il regno di Enrico II, secondo il cronista Giraldo Cambrense e altri, l'abate Enrico di Blois commissionò una ricerca, che , a una profondità di 5 metri, avrebbe portato alla luce un enorme tronco di quercia o una bara con un'iscrizione: "Qui giace sepolto l'inclito re Artù nell'isola di Avalon". I resti furono sotterrati di nuovo davanti all'altare maggiore, nell'abbazia di Glastonbury, con una grande cerimonia, a cui parteciparono anche re Edoardo I e la sua regina. Il luogo divenne meta di pellegrinaggio fino al periodo della Riforma protestante. Una vicina vallata porta il nome di Valle di Avalon. Comunque, la leggenda di Glastonbury è stata spesso considerata falsa.
Secondo altre teorie, Avalon sarebbe l'Ile Aval o Daval, sulla costa della Bretagna, oppure Burgh-by-Sands, nel Cumberland, che al tempo dei romani era il fortilizio di Aballava, lungo il Vallo di Adriano, e vicino Camboglanna, al di sopra del fiume Eden, ora Castlesteads. Per una coincidenza, il sito dell'ultima battaglia di Artù si sarebbe chiamato Camlann. Per altri Avalon sarebbe da ubicare sul Monte di san Michele, in Cornovaglia, che si trova vicino ad altre località associate con le leggende arturiane. Questo monte, è in realtà isola che si può raggiungere quando c'è bassa marea.La questione è confusa da leggende simili e toponimi presenti in Bretagna.
Avalon, comunque, resta nell'immaginario collettivo un'isola magica, dove continuano a vivere le vecchie tradizioni dei celti e dove la Grande Dea viene onorata dai druidi e dalle sacerdotesse. Sono proprio queste ultime, sempre secondo le leggende, ad aver nascosto l'isola con una fitta nebbia, rendendo il luogo accessibile solo a chi ha la conoscenza per aprire questo incantesimo. L'isola di Avalon veniva chiamata anche "Inis witrin" (cioè "isola di vetro") per l'abbondanza di guado, pianta che sfuma sull'azzurro e che i guerrieri celti utilizzavano per tingersi la faccia per andare in battaglia.
Estratto da "http://it.wikipedia.org/wiki/Avalon"

sabato 2 febbraio 2008

La mitologia giapponese


La mitologia giapponese è un complesso sistema di credenze. Il pantheon shintoista, da solo, già vanta una "collezione" di più di 8000 kami (parola giapponese per "spirito" o "divinità"). Nonostante l'influenza dell'antica civiltà cinese, la maggior parte della mitologia e della religione giapponesi è autoctona. Abbraccia tradizioni shintoiste e buddiste, ma anche credenze popolari legate all'agricoltura. Oltretutto, diversamente dalle mitologie greche, nordiche ed egiziane, è relativamente difficile distinguere che cosa è veramente "mito" in quella giapponese. In questo articolo verranno trattati solamente gli elementi mitologici tipici presenti anche nella mitologia occidentale, come la cosmogonia, le divinità principali e le più famose storie mitologiche giapponesi.
Il pensiero mitologico giapponese, come cioè è generalmente riconosciuto oggi, si basa sul Kojiki, sul Nihonshoki e su altri libri complementari. Il Kojiki, o "Registrazione di Cose Antiche", è il più antico libro riconosciuto di miti, leggende e storie giapponesi. Lo Shintoshu spiega le origini delle divinità giapponesi da un punto di vista buddista, mentre il Hotsuma Tsutae riporta una versione sostanzialmente diversa della mitologia nipponica.
Un'importante conseguenza della mitologia giapponese, spiegando le origini della Famiglia Imperiale nipponica, è che le attribuisce una discendenza divina. La parola giapponese per "Imperatore", tennō (天皇), significa appunto "imperatore divino" (l'ideogramma 天 significa "celeste", "del paradiso").
Mito della Creazione:
Le prime divinità diedero alla luce due esseri divini, l'essenza maschile Izanagi e l'essenza femminile Izanami, che incaricarono di creare la prima terra. Per aiutarli in tale compito, venne loro donata un'alabarda ingioiellata, chiamata Amanonuhoko (Albarda Celeste della Palude). Le due divinità andarono quindi al ponte che collegava cielo e terra, l'Amenoukihashi (Ponte Fluttuante del Cielo), e mescolarono il mare sottostante con l'alabarda. Quando alcune gocce di acqua salata precipitarono da questa, si trasformarono nell'isola di Onogoro. Izanami e Izanagi scesero dal ponte del cielo e realizzarono la loro dimora sull'isola. Vollero infine avere dei figli, così eressero un pilastro (chiamato Amenomihashira) e attorno ad esso costruirono un palazzo (chiamato Yahirodono, "La sala dall'area di 8 braccia di lunghezza"). Izanagi e Izanami girarono attorno al pilastro in direzione opposta l'uno all'altra, e quando si incontrarono sull'altro lato Izanami, la divinità femminile, salutò per prima Izanagi, la divinità maschile. Questi pensò che ciò non fosse corretto, ma si coricarono assieme comunque. Ebbero due bambini, Hiruko ("bambino debole") e Awashima ("isola pallida"); ma erano malformati e non sono considerati divinità.
Izanagi e Izanami misero i bambini in una barca e li lasciarono andare in mare aperto, pregando dunque gli altri dei che fosse data loro una spiegazione per ciò che avevano fatto di sbagliato. Venne loro detto che la divinità maschile avrebbe dovuto salutare per prima quella femminile durante la cerimonia, mentre era avvenuto il contrario. Così Izanagi e Izanami ritornarono al pilastro, e vi rigirarono intorno, e questa volta quando s'incontrarono fu Izanagi a parlare per primo e la loro unione fu fruttuosa.
Dalla loro unione nacquero le Ōyashima, cioè le otto grandi isole del Giappone:
Awazi
Iyo (successivamente Shikoku)
Ogi
Tsukusi (successivamente Kyushu)
Iki
Tsushima
Sado
Yamato (successivamente Honshu)
Notare che Hokkaido, Chishima, e Okinawa non facevano parte del Giappone nell'antichità.
Generarono in seguito sei ulteriori isole e molte divinità. Izanami, tuttavia, morì dando alla luce il figlio Kagututi (incarnazione del fuoco) o Ho-Masubi (causa prima del fuoco). Venne sepolta sul monte Hiba, al confine delle antiche province di Izumo e Hoki, vicino l'odierna Yasugi della Prefettura di Shimane. Incollerito, Izanagi uccise Kagututi, dalla qual morte vennero generate dozzine di altre divinità.
Gli dei nati da Izanagi e Izanami sono i simboli di importanti aspetti naturali e culturali, ma sono troppi per essere qui menzionati. Un esempio di conseguenza sulla cultura nipponica è, comunque, il fatto che (nel mito) fu necessario che la divinità maschile Izanagi assumesse la posizione di "guida", mentre la divinità femminile Izanami dovette essere di "seconda posizione". Ciò portò in Giappone alla concezione di un'implicita discriminazione nei confronti del genere femminile.

Yomi, l'oscura terra dei morti:
Izanagi pianse la morte di Izanami ed intraprese un viaggio verso Yomi, "La terra tenebrosa dei morti". Izanagi trovò poche differenze fra Yomi e la terra superiore, eccetto l'eterna oscurità. Comunque, questa tenebra soffocante era sufficiente per farlo soffrire, in mancanza della luce e della vita del mondo superiore. Cercò rapidamente Izanami e la trovò. Dapprima, Izanagi non poteva vederla affatto a causa delle ombre che celavano la sua figura. Ciononostante, le chiese di tornare con lui. Izanami gli parlò, informandolo che era ormai troppo tardi: ella aveva infatti già mangiato il cibo degli Inferi ed ora faceva parte della Terra dei Morti. Non poteva più ritornare fra i viventi.
Izanagi rimase interdetto all'udire questa notizia ma rifiutò di sottomettersi al suo desiderio di essere lasciata nell'oscuro abbraccio di Yomi. Così, mentre Izanami dormiva, prese il pettine che legava i lunghi capelli dell'amata e lo accese come una torcia. Sotto l'improvvisa fiamma luminosa, Izanagi vide l'orripilante figura dell'un tempo bella e graziosa Izanami: era ora un corpo di carne devastata dalla decomposizione, pieno di larve ed altre creature abominevoli che vi camminavano sopra.
Urlando, Izanagi non poté più controllare la sua paura e cominciò a correre, volendo ritornare fra i viventi ed abbandonare sua moglie, morta e disgustosa. Ma Izanami, gridando indignata, si erse dalla terra e prese ad inseguire il consorte. Anche delle shikome, specie di "arpie" o "furie", incaricate da Izanami di riportarlo indietro, cominciarono a rincorrere Izanagi.
Pensando velocemente a cosa potesse fare, Izanagi gettò a terra il suo cappello, che si trasformò in un grappolo d'uva nera. Le shikome vi si inciamparono ma continuarono l'inseguimento. Dopo, Izanagi lanciò a terra il pettine che divenne un cespuglio di canne di bambù. A questo punto le creature del mondo di Yomi iniziarono ad inseguirlo, ma Izanagi urinò contro un albero, formando un grande fiume che gli diede del vantaggio. Sfortunatamente, continuarono ad inseguire Izanagi, costringendolo a gettar loro addosso delle pesche. Sapeva che ciò non li avrebbe rallentati a lungo, ma era quasi libero, ché il confine del mondo di Yomi era ormai vicinissimo.
Izanagi sgusciò fuori dall'entrata e veloce spinse una grossa roccia a tappare la bocca della caverna, che era poi l'ingresso a Yomi. Izanami gridò da dietro questa impenetrabile barriera e disse ad Izanagi che, qualora l'avesse abbandonata, avrebbe ucciso 1000 persone viventi ogni giorno. Ma lui rispose furiosamente che in tal caso avrebbe dato la vita a 1500 persone viventi ogni giorno!
E così iniziò l'esistenza della Morte, provocata dalle mani dell'irata Izanami, la moglie che Izanagi aveva abbandonato.

Sole, Luna e Vento:
Come ci si potrebbe aspettare, Izanagi andò subito a purificarsi dopo la sua discesa nel mondo di Yomi. Mentre si svestiva, e rimuoveva tutti gli ornamenti dal suo corpo, ogni oggetto che gettava a terra si trasformava in una nuova divinità. E ancora più dei nacquero quando andò a lavarsi in acqua. I più importanti si crearono una volta che Izanagi lavò la sua faccia:
Amaterasu (l'incarnazione del Sole) dal suo occhio sinistro;
Tsukiyomi (l'incarnazione della Luna) dal suo occhio destro;
Susanoo (l'incarnazione del Vento e della Tempesta) dal suo naso.
Izanagi stabilì che il mondo venisse diviso fra loro: ad Amaterasu andò il Cielo, a Tsukiyomi la notte e la Luna, e a Susanoo i mari.

Amaterasu e Susanoo:
Amaterasu, la potente dea giapponese del sole, è la più famosa divinità della mitologia nipponica. Il suo governo terreno col suo incontrollabile fratello Susanoo, tuttavia, è decisamente poco conosciuto ed appare in numerosi racconti. Una storia parla del terribile comportamento di Susanoo nei confronti di Izanagi: questi, stanco delle continue lamentele di Susanoo, lo confinò nel mondo di Yomi. Susanoo accettò riluttante, dicendo che prima avrebbe dovuto adempiere ad alcune sue faccende incompiute. Andò in Takamanohara (Cielo) per dire addio a sua sorella, Amaterasu. Ma questa ben sapeva che il suo imprevedibile fratello non aveva buone intenzioni, e si preparò per la battaglia. "Perché sei giunto fin qui?", domandò Amaterasu. "Per dirti addio", rispose Susanoo.
Ma lei non gli credeva, e gli propose una gara per provare la sua buona fede. Venne organizzata una sfida, che avrebbe vinto chi avrebbe dato alla luce il maggior numero di figli divini. Amaterasu generò tre donne dalla spada di Susanoo, mentre Susanoo generò cinque uomini dal monile di Amaterasu. Questa pretese che i cinque uomini generati da un suo oggetto fossero attribuiti a lei; di conseguenza, le tre donne furono attribuite a Susanoo.
Chiaramente, entrambi gli dei si dichiararono vincitori. L'insistenza di Amaterasu in ciò portò Susanoo ad intraprendere violenti scontri contro di lei, che raggiunsero il loro apice quando Susanoo gettò in una delle sale del palazzo di Amaterasu un poni mezzo scorticato (animale che era consacrato alla dea), causando la morte di una delle ancelle della divinità. Amaterasu fuggì, e si nascose nella grotta di Iwayado. Poiché l'incarnazione del sole si era nascosta in una grotta, il mondo venne interamente oscurato.
Tutti gli dei e le dee quindi cercarono, a turno, di trarre Amaterasu fuori dalla grotta, ma le rifiutò sempre. Infine, il kami dell'ilarità, Ama-no-Uzume, ebbe un piano. Piazzò un largo specchio di bronzo su un albero, dirimpetto alla caverna di Amaterasu. Quindi Uzume si ricoprì di fiori e foglie, capovolse una tinozza e prese a ballarvici sopra, tamburellando la superficie con i suoi piedi. Alfine, Uzume si spogliò delle foglie e dei fiori e danzò nuda. Tutte le divinità maschili esplosero in fragorose risate, e Amaterasu, sentendole, s'incuriosì. Quando Amaterasu sbirciò fuori dalla caverna, ove a tanto a lungo era stata, ne dipartì un raggio di luce, chiamato "alba", e la dea rimase abbagliata dal suo riflesso sullo specchio. Il dio Ameno-Tajikarawo la trasse a sé dalla grotta, che fu sigillata con una roccia sacra detta shirukume. Circondata di risate, la depressione di Amaterasu scomparve e accettò di restituire la sua luce al mondo. Ama-no-Uzume fu da allora conosciuta come kami dell'alba e dell'ilarità.

Susanoo e Orochi:
Susanoo, esiliato dal Cielo, giunse nella provincia di Izumo (oggi parte della Prefettura di Shimane). Dopo poco tempo incontrò un uomo anziano e sua moglie, piangenti assieme alla loro figlia. L'anziana coppia spiegò che avevano all'inizio otto figlie, che furono divorate però una ad una, ogni anno, dal drago chiamato Yamata-no-Orochi ("Il serpente otto-forcuto", che si diceva venisse dalla regione di Kosi, oggi Hokuriku). Il terribile drago aveva otto teste ed otto code. Ed ora, Kusinada (o Kushinada-Hime, "principessa della risaia") era l'ultima rimasta delle otto figlie.
Susanoo, che ben conosceva la relazione della coppia con la dea del sole Amaterasu, sua sorella, offrì loro il suo aiuto in cambio della mano della loro magnifica figlia. I genitori accettarono e Susanoo trasformò Kushinada in un pettine, nascondendola in modo sicuro fra i suoi capelli. Ordinò poi che fosse costruita una staccionata attorno alla casa, con otto cancelli, otto tavoli ad ogni cancello, ed otto fiaschi su ogni tavolo, ognuno riempito con vino di riso fermentato otto volte.
Orochi arrivò, e fu attirato dal vino; lo bevve, e con suo stupore fu ucciso da Susanoo. Un fiume vicino divenne rosso per il sangue del drago ucciso. Mentre Susanoo tagliava il drago a pezzettini, trovò all'interno di una delle code un'eccezionale spada, che il dio non era stato in grado di tagliare con la sua. La spada venne successivamente portata da Amaterasu, e venne chiamata Ame no Murakamo no Tsurugi (in seguito, Kusanagi). Questa spada ricorrerà spesso in molte altri racconti.

Il Principe Ōnamuji:
Ōnamuji (altrimenti detto Ōkuninushi) era un discendente di Susanoo. Egli, assieme ai suoi molti fratelli, volle competere per la mano della principessa Yakami di Inaba. Mentre viaggiava da Izumo a Inaba per corteggiarla, i suoi fratelli trovarono un coniglio scorticato che giaceva sulla spiaggia. Vedendolo, gli dissero di immergersi in mare e di asciugarsi poi col vento su un'alta montagna. Il coniglio dette loro retta e perciò, per il sale del mare, soffrì agonizzando. Ōnamuji, che era in ritardo dietro ai suoi fratelli, arrivò e vide il coniglio in agonia. Gli diede istruzioni di immergersi nell'acqua dolce, e di coprirsi con la polvere del fiore "gama" (una sorta di giunco). Il coniglio rinvigorito, che era invero una divinità, predisse a Ōnamuji che sarebbe stato lui a sposare la principessa Yakami.
Le lotte che Ōnamuji dovette affrontare furono molte, e morì due volte per le mani dei suoi fratelli gelosi. Ogni volta era però stato salvato da sua madre, Kusanda-Hime. Inseguito dai suoi nemici, si avventurò nel regno di Susanoo dove avrebbe incontrato la vendicativa figlia del dio, Suseri-Hime. L'astuto Susanoo avrebbe provato Ōnamuji numerose volte ma alla fine Susanoo proclamò la sua vittoria sui suoi fratelli.
Seppur la tradizione Yamato attribuisca la creazione delle isole giapponesi a Izanagi e Izanami, la tradizione Izumo afferma che Ōnamuji, con l'aiuto di un dio nano chiamato Sukunabiko, avrebbe contribuito alla creazione della terra nipponica, o almeno l'avrebbe ultimata.

Regalità, Conoscenza e Forza:
Amaterasu ordinò al suo nipote Ninigi di regnare sulla Terra. E gli donò i Tre Sacri Tesori:
il monile Magatama, del Yasakani no magatama (ora sito nel Palazzo Imperiale di Kokyo), simboleggiante la regalità;
lo specchio di bronzo del Yata no kagami (ora sito nel Gran Tempio di Ise), simboleggiante la conoscenza;
la spada Kusanagi (una possibile replica del quale è ora sita nel Tempio di Atsuta a Nagoya), simboleggiante la forza.
I primi due vennero realizzati per trarre Amaterasu fuori dalla grotta Amano-Iwato; l'ultimo fu trovato da Susanoo nell'Orochi, l'"Idra" dalle otto teste. Di questi tre, lo specchio è anche il simbolo di Amaterasu. I tre oggetti insieme costituiscono le Insegne imperiali del Giappone.
Ninigi e la sua compagnìa andarono sulla Terra e giunsero a Himuka, quindi fondò il suo palazzo.

Prosperità ed Immortalità:
Ninigi incontrò la principessa Konohana-sakuya (incarnazione dei fiori), figlia di Yamatumi (maestro delle montagne), e s'innamorarono. Ninigi chiese a Yamatumi la mano della figlia; questi ne fu ben felice, e gli offrì entrambe le figlie, Iwanaga (incarnazione delle rocce) e Sakuya. Ma Ninigi sposò solamente Sakuya, e rifiutò Iwanaga.
"Iwanaga ha il dono dell'immortalità, mentre Sakuya quello della prosperità", disse dispiaciuto Yamatumi. "Rifiutando Iwanaga, la tua vita sarà d'ora in poi mortale". A causa di ciò, Ninigi ed i suoi discendenti furono mortali.
Una notte, Sakuya rimase incinta, e Ninigi dubitò che fosse lui il responsabile. Per provare che il figlio fosse legittimo, Sakuya fece un giuramento sulla sua stessa vita: avrebbe appiccato il fuoco alla sua stanza una volta partoriti i suoi tre bambini. Così, Ninigi verificò la sua castità. I nomi dei tre neonati furono Hoderi, Hosuseri, e Howori.

L'alta e la bassa marea:
Hoderi si guadagnò da vivere pescando in mare, mentre suo fratello Howori fece il cacciatore nelle montagne. Un giorno, Howori chiese a suo fratello di scambiare i loro ruoli per un giorno. Howori provò quindi a pescare, ma non riusciva a prendere molti pesci, e ciò che era peggio, perse l'amo che aveva preso in prestito dal fratello. Hoderi, spietato, lo incolpò e non accettò le scuse del fratello.
Mentre Howori era seduto in spiaggia, assai perplesso, Shihotuti gli disse di prendere la nave chiamata Manasikatuma e andare ovunque andasse la corrente. Seguendo il suo consiglio, Howori raggiunse la casa di Watatumi (maestro dei mari). Qui conobbe Toyotama, la figlia di Watatumi, e la sposò. Dopo tre anni di matrimonio, si ricordò di suo fratello e dell'amo, così ne parlò a Watatumi.
Questi trovò presto l'amo nella gola di un'abramide e lo porse a Howori. Watatumi gli diede anche due sfere magiche, la Sihomitutama, che poteva generare l'alta marea, e la Sihohirutama, che poteva invece generare la bassa marea; e così lo mandò in terraferma, assieme a sua moglie.
Mentre Toyotama stava partorendo, chiese a Howori di non guardare il parto. Ma questi, pieno di curiosità, diede una sbirciata, e vide la moglie trasformarsi in uno squalo nel momento in cui suo figlio, Ugaya, era nato. Conscia di ciò, Toyotama scomparve in mare e non tornò, ma affidò alla sorella Tamayori la passione per Howori.
Ugaya sposò sua zia Tamayori ed ebbe cinque figli, fra cui Ituse e Yamatobiko.

Creature leggendarie:

Oni:

I ritratti degli oni variano notevolmente tra loro, ma normalmente li ritraggono come creature giganti e mostruose, con artigli taglienti, capelli selvaggi e due lunghe corna che crescono dalla loro testa.
Sono fondamentalmente umanoidi, ma occasionalmente sono ritratti con caratteristiche innaturali, come molti occhi o dita delle mani e dei piedi extra. La loro pelle può essere di colori diversi, ma quelli più comuni sono il rosso, blu, nero, rosa e verde. Il loro aspetto feroce viene spesso accentuato dalla pelle di tigre che tendono ad indossare e dalla mazza ferrata da loro favorita, detta kanabō (金棒, kanabō?). Questo modo di immaginarli ha generato l'espressione oni con la mazza ferrata (鬼に金棒, oni con la mazza ferrata?), cioè "invincibile" o "imbattibile". Può anche essere usata nel senso di "forte oltre i forti", o di migliorare o incrementare le proprie capacità naturali mediante l'uso di un attrezzo.
Nelle prime leggende gli oni come per esempio la ragazza del pozzo erano creature benevole ritenute capaci di tenere alla larga spiriti maligni malvagi e malevoli e di punire i malfattori.

Una statua di un Oni che maneggia una mazza ferrata.




















Durante l'era Heian il Buddhismo giapponese, che aveva già importato una parte della demonologia indiana (rappresentata da figure come i kuhanda, gaki e altri) incorporò queste credenze chiamando queste creature aka-oni ("oni rosso") e ao-oni ("oni blu") e facendone i guardiani dell'inferno o torturatori delle anime dannate. Alcune di queste creature erano riconosciute come incarnazioni di spiriti shinto.
Con il passare del tempo la forte associazione degli oni con il male contagiò il modo in cui venivano percepite queste creature e vennero ad essere considerate come portatori o agenti delle calamità. I racconti popolari e teatrali iniziarono a descriverli come bruti stupidi e sadici, felici di distruggere. Si disse che gli stranieri ed i barbari fossero oni. Oggigiorno sono variamente descritti come spiriti dei morti, della terra, degli antenati, della vendetta, della pestilenza o della carestia. Non importa quale sia la loro essenza, gli oni odierni sono qualcosa da evitare e da tenere a bada.
Fin dal X secolo gli oni sono stati fortemente associati con il nord-est (kimon), particolarmente nella tradizione detta onmyōdō di origine cinese. I templi sono spesso orientati verso questa direzione per prevenirne gli influssi nefasti e molti edifici giapponesi hanno indentazioni a forma di "L" in questa direzione per tenere lontani gli oni. I templi Enryakuji, sul Monte Hiei a nord-est del centro di Kyōto e Kaneiji, che erano a collocati a nord-est delle dimore imperiali, ne sono un esempio. La capitale giapponese stessa fu spostata verso nord-est da Nagaoka a Kyōto nell'VIII secolo.
Alcuni villaggi tengono cerimonie annuali per tenere lontani gli oni, specialmente all'inizio della primavera. Durante la festa del Setsubun la gente scaglia fagioli di soia fuori dalle case gridando «Oni wa soto! Fuku wa uchi!» ("Oni fuori! Fortuna dentro!"). Secondo un'altra tradizione di origine taoista si ritiene che alcuni oni possano fare delazioni alle divinità sui peccati dell'uomo, perciò la nota rappresentazione delle tre scimmie che «non vedono, non sentono e non parlano» (con un gioco di parole in giapponese: «mizaru, kikazaru, iwazaru») ha valore talismanico perché impedirebbe a questi spiriti di agire malevolmente. Rimangono comunque alcune vestigia dell'antica natura benevola degli oni. Per esempio uomini in costume da oni conducono spesso le parate giapponesi per tenere lontana la sfortuna. Gli edifici giapponesi a volte includono tegole del tetto con la faccia da oni per tenere lontana la sfortuna, in maniera simile ai gargoyle della tradizione occidentale. Nella versione giapponese del gioco acchiapperella il giocatore che sta sotto è invece chiamato "l'oni".


I Kappa:


La maggior parte delle descrizioni descrive i kappa come umanoidi delle dimensioni di bambini, sebbene i loro corpi siano più simili a quelli delle scimmie o a quelli delle rane piuttosto che a quelli degli esseri umani. Alcune descrizioni dicono che le loro facce sono gorillesche, mentre secondo altre hanno un viso con un becco simile a quello delle tartarughe. Generalmente i disegni mostrano i kappa con spessi gusci simili a quelli di una tartaruga e con la pelle scagliosa in colori nell'intervallo che va dal verde, al giallo o al blu.
I kappa abitano i laghi e i fiumi del Giappone e sono dotati di diverse caratteristiche che li aiutano in questo ambiente, come mani e piedi palmati. Si dice alle volte che puzzino di pesce e certamente sanno nuotare bene. L'espressione kappa no kawa nagare ("un kappa che affoga") significa che anche gli esperti possono sbagliare.
La caratteristica principale del kappa è comunque la depressione piena d'acqua in cima alla testa. Questa cavità è circondata da ispidi e corti capelli, che hanno dato nome al taglio di capelli okappa atama. Il kappa deriva la sua forza incredibile da questo foro pieno d'acqua e chiunque ne affronti uno può sfruttare questa debolezza semplicemente facendo in modo che il kappa rovesci l'acqua dalla sua testa. Un metodo sicuro è di appellarsi al profondo senso di etichetta del kappa, dato che questo non può non ricambiare un profondo inchino, anche se questo significa rovesciare l'acqua dalla testa. Una volta vuotata la riserva d'acqua il kappa è seriamente indebolito e può anche morire. Altri racconti dicono che quest'acqua permette ai kappa di muoversi sulla terra ed una volta svuotata la creatura è immobilizzata. I bambini testardi sono incoraggiati a seguire il costume di inchinarsi con la scusa che è una difesa contro i kappa.
















I kappa sono combinaguai maliziosi. I loro scherzi vanno dal relativamente innocente, come rumorose flatulenze o guardare sotto al kimono delle donne, fino ai più problematici, come rubare il raccolto, rapire bambini o stuprare donne. Infatti i piccoli bambini sono uno dei pasti preferiti dei kappa, sebbene siano anche disponibili a mangiare adulti. Si nutrono delle loro vittime inermi, succhiando fuori le interiora (o il sangue, il fegato o la "forza vitale", secondo la leggenda) attraverso l'ano. Avvisi che mettono in guardia dai kappa appaiono sui corsi d'acqua di alcuni città e villaggi giapponesi. Si dice che i kappa abbiano anche paura del fuoco ed alcuni villaggi tengono festival di fuochi d'artificio ogni anno per spaventarli e tenerli lontani.
I kappa non sono comunque interamente antagonistici agli esseri umani. Sono curiosi della civilizzazione umana e possono comprendere e parlare il giapponese. Perciò a volte sfidano chi incontrano a batterli in test di abilità, come lo shogi (un gioco simile agli scacchi popolare in Giappone) o un incontro di sumo. Possono anche stringere amicizia con esseri umani in cambio di doni e offerte, specialmente cetrioli, il solo cibo che i kappa apprezzino più dei bambini umani. Alle volte i genitori giapponesi scrivono i nomi dei loro bambini (o i loro propri nomi) su cetrioli e li lanciano nelle acque infestate di kappa per placare la creatura e permettere alla famiglia di fare il bagno. Esiste anche un tipo di sushi con ripieno di cetriolo chiamato kappamaki.
Una volta stretto amicizia con il kappa, si dice che questo esegua diversi tipi di compiti per gli esseri umani, come aiutare i contadini ad irrigare i campi. Sono anche gran conoscitori della medicina e una leggenda afferma che hanno insegnato agli esseri umani come guarire le fratture. A causa di questi aspetti benevoli alcune cappelle sono dedicate all'adorazione di un kappa particolarmente utile. I kappa possono anche essere truffati nell'aiutare le persone. Il loro profondo senso del decoro non permette loro, per esempio, di rompere un giuramento, quindi se si riesce ad obbligare un kappa a promettere aiuto, il kappa non ha alcuna scelta che di mantenere la parola data.
Ci sono diverse teorie sull'origine dei kappa nel mito giapponese. Una possibilità è che si siano sviluppati dall'antica pratica giapponese di far galleggiare i feti di bambini nati morti lungo i fiumi e torrenti. Un'altra teoria è che i kappa vennero inventati per spiegare l'ano ingrossato comune nelle vittime di annegamento. Il nome "kappa" potrebbe essere derivato dal termine per la "veste" usata dai monaci portoghesi arrivati in Giappone nel XVI secolo; questi chiamavano il loro abito una capa e l'aspetto dei monaci non è dissimile da quello di questi spiriti giapponesi, dal loro mantello sciolto, simile ad un guscio alla tonsura dei capelli. L'etimologia più antica del nome giapponese tuttavia fa pensare che in origine il termine significasse "creature o uomini dei corsi d'acqua" (è attestata infatti anche la versione kawappa).

Kitsune:

Kitsune (giapponese 狐) significa in giapponese semplicemente volpe. In Giappone vivono due specie di volpi: la volpe rossa del Giappone (Hondo kitsune, vive sull'isola di Honshū; Vulpes vulpes japonica) e la volpe di Hokkaidō (Kita kitsune, vive sull'isola di Hokkaidō; Vulpes vulpes schrencki). Nella mitologia giapponese sono considerate demoni (youkai).
Nella mitologia giapponese, si credeva che questi animali possedessero una grande intelligenza, vivessero a lungo, ed avessero poteri magici. Il principale tra questi ultimi è l'abilità di cambiare aspetto ed assumere sembianze umane; si dice che una volpe impari a far questo quando raggiunge una determinata età (generalmente cento anni, in alcuni racconti solo cinquanta). Le kitsune appaiono spesso con l'aspetto di donna bellissima, dolce ragazzina, o vecchio, ma mai come donna anziana.
Altri poteri che sono spesso attribuiti alla kitsune includono la possessione (vedi kitsunetsuki sotto), la capacità di appiccare il fuoco con la/e coda/e o di sputare fuoco, il potere di entrare nei sogni, e l'abilità di creare illusioni così complesse da essere quasi indistinguibili dalla realtà. Alcuni racconti vanno oltre, parlando di kitsune con la capacità di piegare il tempo e lo spazio, di far impazzire, o di assumere altre forme oltre a quelle umane, come un albero altissimo o una seconda luna in cielo. Occasionalmente le kitsune sono descritte in termini simili ai vampiri o ai succubi - queste kitsune si nutrono della vita o dell'anima degli umani, generalmente attraverso contatto sessuale.
A volte le kitsune sono raffigurate a guardia di una sfera, rotonda o a forma di pera (hoshi no tama o sfera della stella). Si dice che chi si impossessa della sfera possa obbligare la kitsune ad aiutarlo; una spiegazione è che la kitsune "deposita" parte della sua magia in questa palla quando cambia forma. Le kitsune devono mantenere le promesse o il loro rango e il loro potere diminuisce.
Le kitsune sono spesso associate alla divinità del riso Inari. Originariamente le kitsune erano i messaggeri di Inari, ma la distinzione tra i due è ormai talmente sfumata che talvolta Inari è rappresentato come una volpe. Si specula che ci sia stata un'altra divinità volpe nello Shinto, ma non ci sono prove. Le kitsune sono un elemento comune alla mitologia Shinto e a quella Buddhista in Giappone.
La kitsune mitologica è uno yōkai. In questo contesto, la parola kitsune è generalmente tradotta come demone volpe; però, questo non dovrebbe indurre a pensare che le kitsune non corrispondano alle comuni volpi. La parola "demone" in questo caso traduce il più generale concetto di spirito nel significato più comune in Estremo Oriente, come anima che ha raggiunto uno stato di conoscenza e illuminazione tale da trascendere le leggi del mondo materiale. Ogni volpe che viva sufficientemente a lungo, perciò, può diventare uno spirito. Ci sono due tipi di volpi; le myobu, o volpi celestiali -- quelle associate a Inari, rappresentate come benevole -- e le nogitsune, o volpi selvagge (letteralmente "volpi di campo"), spesso, ma non sempre, considerate maliziose.
L'attributo fisico che più rappresenta una kitsune è la coda, e ne possono possedere fino a nove; generalmente, un maggior numero di code rappresenta una kitsune più vecchia e più potente, e secondo alcune fonti la prima coda addizionale cresce solo dopo migliaia di anni, poi le altre in base all'età e alla saggezza acquisita. In ogni caso, le kitsune che compaiono nei racconti popolari hanno sempre una, cinque, o nove code, forse a causa di qualche numerologia.
Quando una kitsune arriva ad avere nove code, il suo pelo diventa argentato, bianco o dorato, e prendono il nome di kyūbi no kitsune (volpe a nove code) guadagnando il potere della visione infinita. Allo stesso modo, in Corea, una volpe che viva mille anni diventa una kumiho (con lo stesso significato), ma la kumiho è rappresentata come malvagia, a differenza della kyūbi, che può essere anche benevola. Anche nella mitologia cinese c'è un demone volpe simile alla kitsune, incluse le nove code: ci sono anzi indizi che le kitsune siano un mito importato dalla Cina, ma c'è un ampissimo supporto, basato su testi e rappresentazioni artistiche molto antiche, alla tesi che il mito sia originario del Giappone, e risale forse al V secolo a.C..
In alcuni racconti, le kitsune hanno difficoltà a nascondere la coda nelle loro trasformazioni - generalmente le kitsune in queste storie ne hanno solo una, il che potrebbe indicare che l'inesperienza ne sia la causa -, e il protagonista attento riesce a smascherarla quando questa beve o si distrae.
Le volpi hanno paura dei cani, usati per cacciarle, così le kitsune li temono e odiano, al punto da tornare al loro aspetto e darsi alla fuga non appena ne vedono uno.
Nella tradizione giapponese, le kitsune sono spesso presentate come ingannatrici - talvolta molto malevole; in questa veste le kitsune usano i loro poteri magici per ingannare gli umano; quelle ritratte in una luce positiva scelgono come vittime samurai vanagloriosi, mercanti avidi, e popolani maldicenti, mentre kitsune più crudeli abusano di poveri contadini o monaci Buddhisti.
In ogni caso, un altro aspetto in cui le kitsune sono spesso rappresentate è come amanti; queste storie d'amore generalmente parlano di ragazzi e kitsune in forma di fanciulla. Talvolta alla kitsune è assegnato il ruolo di seduttrice, ma spesso queste storie sono di natura romantica. Generalmente in queste storie il ragazzo (inconsapevolmente) sposa la kitsune, e ne vanta le virtù; in molte di queste storie è presente anche l'elemento tragico, e generalmente quando la vera identità della volpe è scoperta questa abbandona l'amato, o in altre occasioni lo sposo si sveglia da un sogno, lontano da casa, e scopre di aver vissuto per molto tempo nella tela di illusioni della volpe.
Molte storie parlando di volpi che concepiscono bambini; questi mezzosangue (han'yō) hanno sempre aspetto umano, ma posseggono eccezionali doti fisiche o poteri soprannaturali, che spesso passano in eredità ai propri figli. La natura di queste doti, però, varia molto da una fonte all'altra; tra quelli di cui si dice che abbiano ereditato tali doti c'è l'onmyōji Abe no Seimei, di cui si dice fosse un han'yō di kitsune.
La più antica storia nota di una sposa-volpe, che costituisce anche un'etimologia popolare della parola kitsune, è un'eccezione alla norma in quanto non finisce tragicamente. In questa storia, la volpe assume le sembianze di una donna e sposa l'uomo, e i due, nel corso dei molti anni vissuti insieme, hanno diversi bambini; lei è costretta a rivelare la sua identità quando, terrificata da un cane, ritorna alle sembianze volpine per nascondersi, in presenza di testimoni. Si prepara quindi ad abbandonare la casa, ma il marito la ferma dicendo "Ora che abbiamo passato tanti anni insieme, ed io ho avuto da te molti figli, non posso dimenticarti. Per favore torna a dormire con me." La volpe acconsente, e da allora ogni notte torna dal marito con l'aspetto di donna, e ogni mattina se ne va con l'aspetto di volpe. Per questo è chiamata kitsune, perché in giapponese antico "kitsu-ne" significa "viene e dorme" mentre "ki-tsune" significa "torna sempre".
Gli studiosi invece suggeriscono che le origini della parola "kitsune" possano essere dovute ad un'onomatopea: "kitsu" era il verso delle volpi secondo i giapponesi, un po' come "bau" è il verso del cane secondo gli italiani. "-ne" è traducibile come "rumore" perciò "kitsune" identificherebbe l'animale attraverso il suo verso; però "kitsu" non è più usato per indicare il verso della volpe da molto tempo, se mai lo è stato; i giapponesi moderni trascrivono il verso della volpe con "kon kon" o "gon gon."

Kitsunetsuki(anche kitsune-tsuki):


letteralmente significa "posseduto dalla volpe". Si credeva che la volpe potesse entrare nel corpo delle sue vittime, generalmente giovani donne, attraverso l'unghia o il seno. In alcuni casi, sembra che i tratti del viso del posseduto cambiassero leggermente in modo da somigliare ad una volpe. Secondo la tradizione giapponese i posseduti analfabeti sapevano improvvisamente leggere e scrivere..

Passa poi a notare che, una volta liberata dalla possessione, la persona non sarà più in grado di mangiare tofu, azukimeshi, o altri cibi amati dalle volpi.
Le vittime di kitsunetsuki erano trattate con gran crudeltà nella speranza che la kitsune se ne andasse di sua volontà. Non era insolito che fossero picchiati o gravemente ustionati. Nelle stesse occasioni, intere famiglie furano emarginate dalle loro comunità dopo che si diffuse la convinzione che uno di loro fosse posseduto.
In Giappone, kitsunetsuki era una diagnosi comune per la follia fino al XX secolo; la possessione era la spiegazione per il comportamento anormale che mostravano gli individui colpiti.
Kitsunetsuki è anche una psicosi etnica che esiste solo nella cultura giapponese, in cui le vittime credono di essere possedute da una volpe; tra i sintomi l'ossessione per il riso e i fagioli rossi, apatia, irrequietezza, e avversione per il contatto visivo. Può essere considerato una forma di licantropia clinica.

Tanuki:
Il Cane Procione (Nyctereutes procyonoides), in giapponese Tanuki (狸, katakana タヌキ?) è un animale originario dell'Estremo Oriente simile al tasso e al procione, ma a differenza di questi appartiene alla famiglia dei canidi. Ma i cani che si trovano nel Giappone sono in effetti due sottospecie, N. p. viverrinus, il (ordinario) Cane procione giapponese e N. p. albus, la varietà bianca trovato su Hokkaidō.

I tanuki sono parte della mitologia del Giappone sin da tempi antichi; si ritiene che sia malizioso e scherzoso, maestro del travestimento e mutaforma, ma in qualche modo ingenuo e distratto.
L'attuale divertente immagine del tanuki si è probabilmente sviluppata durante l'epoca Kamakura. Il tanuki selvaggio ha testicoli insolitamente grandi, caratteristica spesso esagerata nelle rappresentazioni artistiche della creatura; i tanuki sono talvolta rappresentati con i testicoli poggiati su una spalla come come un sacco, o mentre li usano come tamburo. I tanuki sono inoltre generalmente rappresentati con una pancia molto grande; talvolta usano la pancia come tamburo, specialmente nei disegni dei bambini. Una filastrocca molto comune in Giappone fa esplicito riferimento alle sue caratteristiche più appariscenti: Tan Tan Tanuki no kintama wa / Kaze mo nai no ni / Bura bura bura ("Del Tan Tan Tanuki le palle stan / Seppure il vento soffiando non sta / Girando girando girando." [1]
Durante le epoche Kamakura e Muromachi, alcune storie cominciarono a parlare di tanuki più sinistri; la storia di Kachi-kachi Yama, compresa nell'Otogizōshi, parla di un tanuki che picchia a morte una vecchia e la serve a tavola al marito inconsapevole come "zuppa di vecchia". Altre storie parlano di tanuki come indifesi e produttivi membri della società. Diversi tempi hanno storie di sacerdoti che erano in realtà tanuki travestiti. Secondo alcune tradizioni i tanuki sono trasformazioni delle anime degli oggetti usati per più di cento anni.
Una popolare storia conosciuta come Bunbuku chagama narra invece di un tanuki che inganna un monaco trasformandosi in una teiera. Un'altra parla di un tanuki che inganna un cacciatore camuffando le sue braccia come ramoscelli, finché non allarga entrambe le braccia insieme e cade dall'albero. Si dice che i tanuki ingannino i mercanti con foglie camuffate da banconote. Alcune storie raccontano che le foglie facciano parte integrante del modo in cui il tanuki cambia aspetto..
In metallurgia, spesso si usava pelle di tanuki per raffinare l'oro. Di conseguenza, si cominciò ad associare i tanuki con le miniere e la lavorazione dei metalli, e li si vendeva come decorazione e portafortuna per la prosperità.
Statue di tanuki si possono trovare davanti a molti templi e ristoranti giapponesi; in queste spesso indossa un grande cappello a forma di cono e porta una bottiglia di sake. Le statue di tanuki hanno sempre una grande pancia, mentre sculture moderne possono anche non avere i grandi testicoli: questi attributi esagerati sono simbolo di abbondanza e prosperità.
Il recente libro di Tom Robbins Villa Incognito ha avuto il merito di diffondere il mito del tanuki anche in Occidente.


















Tengu:
I tengu assumono varie forme, ma generalmente sono rappresentati come uomini-uccello, dotati di un lungo naso prominente o addirittura di becco, con ali sulla testa e capelli spesso rossi; quelli meno potenti, karasu tengu (烏天狗, karasu tengu?), kotengu (小天狗, kotengu?) or konohatengu (木の葉天狗, konohatengu?) sono ritratti come più simili agli uccelli. La faccia può essere rossa, verde o nera, e le loro orecchie e capelli sono generalmente umani; sono dotati di ali che battono rapidamente come quelle di un colibrì, e ali e coda sono piumate, e talvolta lo è tutto il corpo. Talvolta portano un pastorale buddhista con anelli in cima detto shakujo, che serve a combattere o a difendersi dalla magia oscura.
Gli yamabushi tengu (山伏天狗, yamabushi tengu?), ootengu (大天狗, ootengu?) o daitengu sono più umani dei loro cugini karasu; sono alti con pelle e faccia rossa, ma hanno un naso incredibilmente lungo. Spesso sono usati nelle storie per parodiare il buddhismo; portano un bastone (bō) o un martellino. Anche loro talvolta hanno caratteristiche aviarie, come ali o un mantello di piume; secondo alcune leggende hanno dei ventagli hauchiwa, fatti con piume o foglie di Aralia japonica, e lo usano per controllare la lunghezza del naso o scatenare fortissime raffiche di vento.
Dei tengu atipici sono il guhin, simile a un cane, e lo shibatengu, simile a un kappa.
I tengu possono trasformarsi in animali (uccello, volpe, o cane procione - nota che gli altri due sono a loro volta capaci di fare lo stesso: vedi kitsune e tanuki) o esseri umani, anche se generalmente mantengono alcune caratteristiche del loro aspetto, come un naso particolarmente lungo o una costituzione simile ad un uccello.
I Tengu sono quasi sempre ritratti vestiti come eremiti di montagna (yamabushi), monaci buddhisti o sacerdoti shintoisti. Anche se sono dotati di ali e possono volare, generalmente sono anche in grado di teletrasportarsi magicamente.
I tengu abitano le montagne del Giappone, e preferiscono fitte foreste di pini e crittomerie; sono specialmente associati ai monti Takao e Kurama. La terra dei tengu è anche chiamata Tengudō, che può corrispondere ad una locazione geografica, una parte di un regno demoniaco, o semplicemente un nome per ogni accampamento di tengu.
Le leggende spesso descrivono la società dei tengu come gerarchica: i karasu fungono da servi e messaggeri degli yamabushi, e in capo a tutti c'è un re dai capelli bianchi, Sōjōbō, che vivrebbe sul monte Kurama. Inoltre, molte aree del Giappone si dicono infestate da tengu con altri nomi, spesso anche venerati nei templi. Sebbene siano sempre raffigurati come maschi, i tengu depongono uova.
I konoha-tengu sono associati a Sarutahiko, il dio Shintō degli incroci, dei sentieri, e del superamento degli ostacoli; l'associazione nasce probabilmente dal lungo naso del dio simile a una proboscide. Secondo altri studiosi però i tengu deriverebbero dal dio Susanoo; le loro caratteristiche aviarie li avvicinano inoltre anche ai garuda della mitologia buddhista.
I tengu sono creature capricciose, e le leggende li descrivono a volte benevoli e a volte malvagi; talvolta si divertono a giocare scherzi pesanti, come appiccare fuochi a foreste o porte di templi, o addirittura mangiare le persone (molto raro). I tengu amano camuffarsi da viandanti umani, assumendo forme amichevoli, come eremiti itineranti; dopo aver guadagnato la fiducia della vittima (nelle leggende spesso monaci buddhisti), i tengu ci giocano, ad esempio facendola volare o immergendola in un'illusione, che sono esperti a creare. Oppure, i tengu la rapiscono, pratica nota come kami kakushi o tengu kakushi — rapimento divino o da tengu. Le vittime spesso si svegliano molto lontano senza alcuna memoria del tempo trascorso; le sparizioni di bambini sono spesso incolpate ai tengu, soprattutto se sono poi ritrovati in stato confusionale. I tengu possono anche comunicare con gli umani per telepatia, e sono talvolta accusati di possessione demoniaca o controllo della mente. Grazie ai loro scherzi malvagi, la gente talvolta lascia loro delle offerte (generalmente riso o pasta di fagioli), per ingraziarseli.
I tengu sono orgogliosi, vendicativi, facili all'ira, particolarmente intolleranti di arroganti, blasfemi, coloro che abusano del loro potere e della loro conoscenza per tornaconto personale, e coloro che arrecano danno alle foreste in cui essi abitano; questa particolarità li spinge a provocare monaci e sacerdoti, e in epoca antica samurai (secondo alcune tradizioni gli arroganti si reincarnano in tengu). Talvolta gli si attribuisce un istinto politico, e si immischiano negli affari dell'umanità per impedirle di diventare troppo potente o pericolosa. Nonostante la loro intolleranza per questo attributo, i tengu sono noti per essere egoisti, da cui la locuzione tengu ni naru ("diventare un tengu"), cioè fare il vanitoso; in almeno una leggenda si afferma che i tengu che si comportano altruisticamente possono reincarnarsi in esseri umani.
I tengu non sono immortali, ma un tengu gravemente ferito può trasformarsi in un uccello (spesso corvo o rapace) e volare via. I tengu sono esperti di arti marziali, tattica, e ottimi armaioli: talvolta insegnano parte del loro sapere ad esseri umani, ad esempio l'eroe Minamoto no Yoshitsune imparò il kenjutsu (tirar di scherma con la katana) dal re dei tengu, Sōjōbō. In realtà non è necessario che lo studente incontri il tengu di persona, perché il tengu può insegnare nei sogni. La maschera nera indossata dai ninja è chiamata tengu-gui proprio per l'associazione dei tengu con il combattimento.
Il mito dei tengu è stato probabilmente importato dalla Cina: il loro nome è scritto con gli stessi kanji del cinese Tiangou (天狗? pinyin Tiāngǒu - "cane del cielo"), il nome di Sirio nell'astrologia cinese, e forse il nome dato a una meteora dalla coda di cane che precipitò in Cina nel VI secolo a.C. Di fatto, in Cina si sviluppò un'intera classe di demoni di montagna chiamati tiangou, molto simili ai tengu giapponesi nel loro comportamento maligno; questi tiangou furono probabilmente introdotti in Giappone dai primi buddhisti nel VI-VII secolo, e lì si fusero con gli spiriti indigeni dello Shinto. Le prime leggende di tengu parlano solo dei karasu (corvo), quasi invariabilmente maligni; diventano sempre più umanoidi col passare del tempo, e anche meno malvagi. I tengu simili a monaci sono quelli più spesso rappresentati in arte, ma questa è una delle varianti più recenti, probabilmente nate dalla fusione di storie di yamabushi dotati di poteri magici e di tengu di montagna.
Durante l'epoca feudale giapponese, la corruzione dilagò tra il clero buddhista, e fu durante questo periodo che i tengu cominciarono a punire i blasfemi, e questa associazione li rese i protagonisti ideali per gli autori del periodo Kamakura che volevano criticare in sicurezza i vizi del clero; i monaci di montagna yamabushi erano visti dal popolo come un baluardo alla corruzione, e questo spiega come i tengu assunsero il loro attuale aspetto yamabushi.
Durante il periodo Edo, i mercanti olandesi erano gli unici europei a cui era consentito entrare in Giappone, ed è stato suggerito che i tengu yamabushi, con occhi grandi e nasi lunghi, possano aver avuto origine dai contadini che pensavano che quegli stranieri dall'aspetto inconsueto fossero mostri travestiti. Alla fine dell'epoca Edo, ufficiali governativi affiggevano avvisi in cui intimavano ai tengu di lasciare la zona prima di ogni visita dello shogun.



Una favola molto nota parla di due tengu seduti in cima a una montagna che possono estendere il loro naso a grandi distanze, seguendo gli allettanti odori provenienti dal villaggio sottostante. Un gran numero di storie prevede un ventaglio, ricevuto in dono o comprato da un tengu, sventolando il quale è possibile cambiare la lunghezza del proprio o dell'altrui naso, magicamente ma non permanentemente.