mercoledì 29 agosto 2007

La mitologia vichinga

LE fonti

La storia dell' Edda

Edda Poetica

Nel 1643 il vescovo islandese Brynjölfur Sveinsson (1605-1675) ritrovo nel sud-ovest dell'Islanda un antico manoscritto il quale conteneva ben 29 canti su dèi ed eroi, e ritenne con gioia di aver trovato il libro che aveva fornito a Snorri Sturluson le numerose citazioni esemplificative della sua Edda.

Il manoscritto era composto da 45 fogli, con una grossa lacuna purtroppo di 16 pagine dopo il trentaduesimo.

Al manoscritto si doveva dare un titolo e Brynjólfur lo chiamò puntualmente Edda, creando cosi un ideale legame con l'opera di Snorri. Gli occorreva anche un autore e il bravo vescovo pensò che un'opera così importante era degna del dotto prete Sæmundr Sigfússon inn Fróði (1056-1133), conosciuto dalla tradizione come un grande sapiente. Fece copiare il manoscritto e sulla copia scrisse di proprio pugno la pomposa epigrafe Edda Sæmundi Multiscii dando al prete una paternita che in realta non aveva.

Da allora si distinse tra la raccolta detta «Edda poetica» o «Edda di Sæmundr» o «Edda antica» ; e l'opera di Snorri detta «Edda in prosa» o «Edda di Snorri»

Il manoscritto in realtà risale alla seconda metà del XIII secolo e naturalmente non ha nulla a che fare con Sæmundr Sigfússon, il quale come si evince nelle date di nascita e di morte visse ben due secoli prima.

Intorno agli autori regna il buio più fitto. Qualche studioso ha dato loro il nome di þulir o «sapienti», avanzando l'ipotesi che formassero un corpo di poeti , esperti di miti, i quali poi furono soppiantati e respinti dagli skáld o poeti d'arte. Certo è che tra gli uni e gli altri esistono notevoli differenze di tecnica. I poemi dell'Edda poetica sono caratterizzati da una grande semplicità verbale che impiega in misura minima i sinonimi , al perfetto contrario dell'involuta poesia scaldica. Le ovvie difficoltà di interpretazione nascono per l'impossibilità, da parte nostra, di accedere ad una cultura scomparsa da mille anni.

Nel 1662 il manoscritto fu spedito in Danimarca e, con la segnatura Codex Regius GKS 2365 4°, fu conservato nella Biblioteca Reale di Copenhagen. Ma attualmente si trova a Reykjavík, in Islanda, dove è tornato il 22 aprile 1971 dopo una lunga e complessa vicenda giudiziaria che si è conclusa con l'impegno da parte della Danimarca di restituire tutti quei manoscritti che possono essere considerati patrimonio culturale inalienabile dell'Islanda.

La Profezia della Veggente

La Profezia della Veggente è il gioiello dell'Edda poetica, il primo dei due monologhi che aprono il grande canzoniere. Opera di un poeta islandese di vigoroso talento, ancorché pagano, vissuto probabilmente intorno alla prima metà del X secolo, la Profezia si configura come la visione di una sinistra profetessa che Óðinn ha evocato affinché riveli per intero la sapienza nordica, i segreti delle cose primordiali e i destini del mondo. E così, in una sessantina di strofe, la Veggente disegna la creazione dell'universo, racconta dell'età dell'oro e della guerra che oppose gli Æsir ai Vanir, narra della morte di Baldr, vola dalle fonti del destino ai dirupi infernali, dalle radici del frassino Yggdrasill ai confini del mondo, per concludersi col terrificante racconto della distruzione, e quindi della rinascita, dell'universo. La Profezia della Veggente si configura insomma come una vera e propria summa mythologiæ scandinava. Tra balenii epocali e schegge d'apocalisse, è senza alcun dubbio uno più bei poemi mitologici di ogni tempo e di ogni paese.

l'Edda in prosa

Snorri Sturluson fu una delle figure di maggior spicco nella cultura islandese medievale. Conosciamo molti dettagli della sua biografia grazie alla Saga degli Sturlungar, redatta alla fine del XIII secolo. Snorri nacque a Hvammr, nell'Islanda occidentale, nel 1179. Suo padre Sturla Þórðarson apparteneva alla famiglia degli Sturlungar, all'epoca una delle più influenti dell'isola; sua madre era Guðný Böðvarsdóttir.

Snorri trascorse la sua gioventù ad Oddi, che era allora era uno dei principali centri intellettuali d'Islanda, e qui scoprì tanto la cultura classico-cristiana quanto la letteratura tradizionale norrena, la poesia scaldica e la narrativa epico-storica delle saghe

Per scaldi si intendevano tutti quei poeti presenti presso le corti scandinavi e islandesi, durante l'età vichinga.Questi componevano versi e mettevano in luce quelli che erano gli aspetti della mitologia norrena, spesso erano anche bardi o consiglieri di corte.

L'edda in prosa in particolare, piu che un trattato sulla mitologia degli uomini del nord si puo considerare proprio un libro di arte scaldica, per aspiranti poeti.

Il libro fondamentalmente si divide in 4 parti tra cui un prologo

PROLOGO

l'INGANNO DI GYLFI

ARTE POETICA

TRATTATO DI METRICA

L'inganno di Gylfi e la mitologia norrena

la parte piu interessante per capire la moltitudine di divinita adorate dai norreni è infatti L'INGANNO DI GYLFI. La cornice di questa parte di libro è in pratica il viaggio effettuato da gylfi mitico re svedese il quale si reca nel paese degli Æsir per scoprire quale fosse il segreto del loro potere.

il libro tratta appunto le domande di Gylfi sulla creazione e sul divenire dell'universo, sulla natura degli dèi e sulla fine del mondo, e le risposte che riceve da tre misteriosi personaggi divini, nei quali si ravvisa - in forma triplice - lo stesso Óðinn. Alla fine del colloquio, la dimora degli dèi scompare nel nulla. Grazie a questa rappresentazione, Snorri dà una visione d'insieme delle credenze pagane,: racconta i miti di creazione e svela la struttura dell'universo e dei mondi che lo compongono, enumera gli dèi e per ciascuno ne fornisce la sua fisionomia e narra i miti principali che lo riguardano.

Gli Æsir

Gli Æsir infatti erano Nella mitologia nordica, una classe di divinità legate al cielo, alla sovranità e alla guerra. Dimoravano nell'Ásgarðr.posta al centro del mondo o in cielo, e in tal caso collegata alla terra dal ponte Bifröst. Il loro sovrano era Óðinn. I più importanti di essi erano Þórr, Týr, Baldr, Vídarr, Bragi, Heimdallr, Forseti, Höðr e Váli.


LA COSMOLOGIA NORRENA

LA GENESI

All'inizio dei tempi non vi era nulla di quanto oggi possiamo vedere intorno a noi. Non c'era la terra né in alto si vedeva il cielo, non c'era il mare bordato di spiagge, non v'erano piante né altre creature viventi.

Dovunque si spalancava un immenso abisso, un baratro oscuro e senza forma. Il Ginnungagap

A nord del Ginnungagap si stendeva una regione oscura e gelida, detta il Niflheimr, a sud una regione di fiamme ardenti e di insopportabile calore, il Múspellheimr

Al centro del Niflheimr vi era il pozzo di Hvergelmir, da cui sgorgavano con fragore gli undici fiumi detti Élivágar. Questi i loro nomi: Svöl, Gunnþrá, Fjörm, Fimbulþul, Slíðr, Hríð, Sylgr, Ylgr, Víð, Leiptr e Gjöll.

Gli Élivágar giunsero così lontano dalla loro sorgente che il veleno superficiale che li accompagnava s'indurì come scoria di combustione e divenne ghiaccio. Laddove questo ghiaccio si fermò, cadde una pioggerella che divenne brina e ricoprì a strati tutto il Ginnungagap.

La parte settentrionale di Ginnungagap si incrostò di ghiaccio, ma in quella meridionale, esposta ai caldi venti di Múspellheimr, il ghiaccio si sciolse e gocciolò. Da queste gocce nacque Ymir, il capostipite della razza dei Giganti.

Freddo e tenebre provenivano da Niflheimr, calore e luce dal Múspellheimr. Tra i due poli, Ginnungagap era mite come l'aria quando non soffia il vento. Allorché la brina s'incontrò con il vento caldo, si sciolse e gocciolò e da quelle gocce viventi si formò la vita, grazie alla forza di Colui che aveva mandato il calore, ed essa prese forma d'uomo.

Costui fu detto Ymir, ma gli Jötnar lo chiamarono Aurgelmir e da lui discesero le stirpi dei giganti di brina.

Ma le gocce da cui Ymir era nato contenevano le particelle di veleno che erano schizzate dai fiumi Élivágar . Questa è la ragione per cui Ymir era sì, saggio, ma anche malvagio, e malvagi furono tutti i suoi discendenti.

I figli di Ymir

Poiché Ymir era solo, non potendo accompagnarsi con femmine, i suoi figli nacquero da lui per generazione spontanea. Dormendo egli stillò sudore e così gli crebbero sotto la mano sinistra (altri dicono sotto il braccio) un uomo e una donna, mentre uno dei suoi piedi generò accoppiandosi con l'altro un gigante con sei teste.

Quando la brina gocciolò, insieme ad Ymir nacque la mucca chiamata Auðhumla, dalle cui mammelle scorrevano quattro fiumi di latte. Fu da quel latte che Ymir trasse il suo nutrimento

.

Ymir trae nutrimento dalla vacca Auðhumla nati entrambi dallo scioglimento della brina

Auðhumla e suo figlio Bùri

Auðhumla leccò il sale che incrostava alcune pietre ghiacciate. Il primo giorno, verso sera, portò alla luce i capelli di un uomo, il giorno dopo la testa e il terzo giorno tutta la persona.

Costui si chiamava Búri, era bello d'aspetto, grande e potente. Generò un figlio che si chiamava Borr, il quale prese in moglie Bestla figlia di Bölþorn e da lei ebbe tre figli. Il primo si chiamava Óðinn, il secondo Vili e il terzo .


Odino e Sleipnir il suo cavallo , dotato di otto zampe, è il migliore cavallo che esista, il più veloce, in grado di cavalcare il cielo e le acque, e anche lungo gli altri mondi. Il suo nome significa "colui che scivola rapidamente"

La creazione del Mondo

I tre figli di Borr, Óðinn, Vili e , uccisero Ymir e trascinarono il suo corpo nel mezzo del Ginnungagap. E da quel corpo essi trassero il mondo, che sollevarono al di sopra dell'abisso. Con la carne dell'antico gigante, essi fecero la terra e innalzarono le montagne con le sue ossa. Fecero le pietre ed i massi con i suoi denti, con le mascelle e con le schegge di ossa. Scagliarono in aria il suo cervello e da esso vennero le nubi.

Posero al di sopra l'immenso cranio di Ymir e da esso fu tratto il cielo. Ai quattro angoli, a sorreggerlo, furono posti quattro nani: Austri, Vestri, Norðri e Suðri.

Col sangue sgorgato dalle ferite di Ymir, nel quale avevano annegato tutti i giganti, i figli di Borr fecero l'oceano e lo avvinsero strettamente alla terra legandolo intorno come un anello; ed esso pare alla maggior parte degli uomini impossibile da traversare.

Esternamente la terra era circolare ed attorno le giaceva il profondo oceano. Al limite della terra, sulle spiagge del mare, i figli di Borr diedero dimora alle stirpi dei giganti discesi da Bergelmir, Gigante primordiale.in quel paese che è l'estremo recinto del mondo.

Per proteggere dai giganti la parte centrale dell'universo, i figli di Borr la circondarono con una possente fortificazione ed allo scopo utilizzarono le sopracciglia di Ymir. A quel recinto diedero nome Miðgarðr, «Recinto di mezzo».

Il Miðgarðr fu destinato ad accogliere la stirpe umana.

Il diluvio di sangue e la morte dei Giganti

Nel sangue di Ymir, i tre figli di Borr affogarono tutti i giganti che da lui erano discesi. Unico a salvarsi fu colui che i giganti chiamavano Bergelmir.

Bergelmir era venuto alla luce all'inizio del tempo. Suo padre era Þrúðgelmir, che pare fosse proprio quel gigante con sei teste che Ymir aveva generato «piede con piede».

Non è chiaro come avesse fatto Bergelmir a salvarsi. Alcuni dicono che si fosse arrampicato insieme a sua moglie in cima a un mulino e così fosse riuscito a scampare al diluvio di sangue. Altri dicono invece che entrambi fuggissero su una barca, forse un rozzo tronco scavato.

Comunque sia andata, Bergelmir e sua moglie si salvarono dal massacro e ripararono lontano. Da loro sarebbero discese le stirpi degli Jötnar, i Giganti di Brina.

il giorno e la notte

Terminata la creazione del mondo, Óðinn, Vili e presero le scintille che volavano nell'aria, spruzzate fuori da Múspellheimr, e le posero nel mezzo del Ginnungahiminn, il Cielo degli Abissi, sopra e sotto, in modo da illuminare il cielo e la terra.

A quel tempo il sole e la luna vagavano liberi nel cielo, del tutto ignari delle loro virtù e del loro destino. Le stelle parimenti non avevano né leggi né dimore. Così i figli di Óðinn misero ordine nel firmamento, dando a tutti gli astri un posto e un ruolo. Ad alcuni li posero fissi nella volta del cielo, per altri stabilirono una rotta da percorrere. Volsero a sud il corso del sole e diedero nome al mattino e alla sera, al mezzogiorno e al pomeriggio. Misurarono le fasi lunari e imposero ad esse un ordine e una durata. Regolarono i meccanismi del firmamento, dando all'universo ordine e stabilità. Furono stabilite in questo modo le divisioni dei giorni, il calcolo dei mesi e degli anni. E così iniziò il computo del tempo.

Viveva in Jötunheimr un gigante chiamato Nörfi. Aveva una figlia il cui nome era Nótt «notte», scura e bruna come tutti i membri della sua stirpe. Fu data in sposa ad un uomo che si chiamava Naglfari: loro figlio ebbe nome Auðr. In seguito fu maritata con colui che si chiamava Annarr e loro figlia fu Jörð «terra». Infine l'ebbe in moglie Dellingr e loro figlio fu Dagr «giorno». Questi era luminoso e splendente come suo padre.

Allora Óðinn prese Nótt e Dagr, diede loro due destrieri e due carri e li pose nel cielo perché corressero ogni giorno attorno alla terra. Per prima cavalca Nótt con il cavallo di nome Hrímfaxi «criniera di brina»: la schiuma dal morso ogni mattina fa gocciolare sulla terra, donde la rugiada piove sulle valli. Il cavallo di Dagr ha nome Skinfaxi «criniera lucente»: e cielo e terra sono illuminati dallo splendore della sua criniera.

Il sole e La luna

Un uomo si chiamava Mundilfœri. Aveva due figli. Erano così belli e splendenti che chiamò il figlio Máni e la figlia Sól, proprio come la luna e il sole, e diede questa in sposa all'uomo di nome Glenr. Ma gli dèi, colpiti dalla sua arroganza, rapirono fratello e sorella e li posero in cielo.

Fecero guidare a Sól i cavalli che trainavano il carro solare, costruito dagli dèi per illuminare il mondo con una scintilla presa nel Múspellheimr. I due cavalli si chiamavano Árvakr e Alsviðr. Sotto le scapole dei destrieri gli dèi posero due mantici di ferro per rinfrescarli durante la loro corsa. Svalinn ha nome lo scudo che fu messo davanti al sole: se fosse tolto da quel posto mari e monti avvamperebbero.

Máni fu preposto ai movimenti della luna, oltre che al crescere e al calare delle sue fasi.

E vi è ancora una ragione per cui Sól e Máni corrono nel cielo senza mai fermarsi, ed è che sono eternamente inseguiti da due lupi. Il lupo che corre dietro a Sól si chiama Skoll e nell'ultimo giorno lo raggiungerà e lo sbranerà. Quello che le corre davanti si chiama Hati. Mánagarmr ha nome il lupo che nell'ultimo giorno sbranerà la luna e riempirà di sangue il cielo e la terra


HATI il lupo che nell'ultimo giorno sbranerà la luna e riempirà di sangue il cielo e la terra

Gli aiutanti della luna

Due fanciulli si chiamavano Bil e Hjúki ed erano figli di Viðfinnr. Essi si allontanavano dal pozzo di Byrgir, portando sulle spalle il secchio Sœgr e il bastone Símul, quando Óðinn li rapì dalla terra e li consegnò a Máni perché lo aiutassero nella regolazione delle fasi lunari. Questi due fanciulli si possono vedere tuttora sul disco lunare insieme con il loro bastone e il loro secchio.

L'estate e L'inverno

Ma a che cosa si deve la differenza per cui le estati sono calde e gli inverni freddi? Tutti lo sanno spiegare. Svásuðr si chiamava il gigante padre di Sumar «estate». Egli viveva una vita così felice che da lui prese nome ciò che era ameno e piacevole [sváslekt].

Il padre di Vetr «inverno» invece era un gigante che alcuni dicono si chiamasse Vindlóni mentre altri dicono Vindsvalr; egli era figlio di Vásaðr. Essi erano parenti severi e d'animo freddo e Vetr aveva il loro carattere.

Il Mare il fuoco e il vento

I giganti, che sono sapientissimi perché la loro stirpe risale alle origini del mondo, hanno potere sugli elementi della natura. Si narra che un antico gigante detto Fornjótr, che alcuni dicono regnasse sulle gelide terre del Finnland. Da lui era discesa una progenie potente e famosa: i suoi figli furono infatti Ægir, Logi e Kari.

Ægir (detto anche Hlér o Gymir) è il signore del mare. La sua sposa ha nome Rán. Ella possiede una rete con la quale raccoglie gli annegati e li trasporta nella sua dimora. Le nove figlie di Hlér e Rán sono le onde del mare. Esse preparano la birra per cui Ægir è giustamente famoso, tanto che è presso la sua sala che gli dèi si radunano per bere e brindare.

Logi è il signore del fuoco divoratore. Dal suo nome, che vuol dire «fiamma eccelsa», dicono derivi quello della provincia di Hálogaland.

Kari è il vento. Suo figlio Frosti «freddo» (detto anche Jökull) ha potere sul freddo e sul ghiaccio. Il figlio di questi si chiama Snær «neve». Snær ha a sua volta tre figli: Þorri «mese del quarto vento», il signore della seconda metà dell'inverno, Fönn «nevischio» e Mjöll «neve fresca»; e una figlia, Drífa «tormenta di neve».

Altri tuttavia dicono che Logi e sua sorella Skjálf fossero figli di Frosti, e che vendicarono loro padre quando egli fu ucciso da re Agni degli Ynglingar.

HRÆSVELGR, la provenienza del Vento

a da dove proviene il vento? Esso è così forte che scuote i vasti mari e attizza il fuoco. Tuttavia, forte com'è, non lo si può vedere poiché fu fatto in maniera mirabile.

Nella parte del cielo che volge a nord vive un gigante che si chiama Hræsvelgr. Ha l'aspetto di un'aquila. Quando muove le ali, sotto di esse si formano tutti i venti che soffiano sul mondo

Creazione degli Uomini

La caratteristica del mito antropogonico, in Scandinavia, è che la prima coppia umana non deriva dalla terra, come nel mito biblico: qui sono i nani, piuttosto, a nascere dalla terra e dal fango. Il primo uomo e la prima donna, nella mitologia norrena, vengono creati a partire da due alberi, un frassino e un olmo. Ragione per cui essi vengono chiamati Askr ed Embla. In norreno, infatti, askr è il frassino ed embla è l'olmo

Il tema della creazione dell'uomo dagli alberi o dalle piante sembra derivare da un antichissimo mitologema che ritroviamo diffuso nei miti di tutto il mondo, anche se spesso in contesti diversi. Ricordiamo brevemente il mito eschimese della nascita della prima coppia umana dai baccelli di una pianta di pisello, o il mito maya della creazione degli uomini dal mais.

Ma troviamo questo motivo anche nell'area indoeuropea. Se nel mito norreno Askr ed Embla nacquero rispettivamente da un frassino e da un olmo, nella mitologia greca gli uomini della prima età del bronzo nacquero cadendo come frutti maturi dai frassini. Analogamente nel mito iranico, il seme di Gāyōmart generò una pianta (Rheum ribes) dalla quale nacque la prima coppia umana, formata da Mašī e Mašanī, ed essi erano talmente uniti che era impossibile distinguere l'uno dall'altra.

La differenza più rilevante nel mito della creazione dell'uomo, tramandato dalla Profezia della Veggente e dall'Edda in prosa di Snorri, riguarda le tre divinità che intervengono nell'operazione.

Sappiamo che vi è una triade di dèi responsabile degli atti creativi che avevano dato inizio all'universo. La Profezia della Veggente parla inizialmente dei «figli di Borr», ma senza specificare i loro nomi. Più tardi tuttavia, quando tratta della creazione degli uomini, fa intervenire una triade divina formata da Óðinn, Hœnir e Lóðurr. Al riguardo, la Profezia della Veggente [17-18] dice che tre dèi, mentre tornavano a casa, trovarono in terra un tronco di frassino e un tronco di olmo; i loro nomi compaiono soltanto durante l'atto in cui essi trasformano i tronchi in creature umane, e sono: Óðinn, Hœnir e Lóðurr.

Riassumendo, la Profezia della Veggente ci spiega che ad operare la creazione del mondo furono i «figli di Bórr» ma non ci dice i loro nomi. Arrivando alla creazione degli uomini, c'informa che ne furono artefici Óðinn, Hœnir e Lóðurr. L'Edda in prosa di Snorri afferma invece che i figli di Bórr erano Óðinn, Vili e , ed a loro attribuisce la creazione degli uomini.

Si ha l'impressione che i teonimi Vili e , traducibili con «volontà» e «santità», siano non dei nomi propri ma dei semplici epiteti dei due fratelli di Óðinn. Se questo è vero, ci si può legittimamente chiedere quali fossero i veri nomi dei due personaggi e in tal caso se la triade di Snorri [Óðinn ~ Vili ~ ] sia da identificare con la triade della Profezia della Veggente [Óðinn ~ Hœnir ~ Lóðurr]. Notiamo subito che quest'ultima triade si muove soprattutto in scene ambientate nei tempi primordiali. La ritroviamo, sempre in Snorri, nell'Arte poetica [1], nel primo racconto, che vede gli Æsir opporsi al gigante Þiazi, oltre che in una scena breve ma importante della Saga dei Völsunghi, in entrambi i casi con sostituzione di Loki a Lóðurr (problema che non comporta necessariamente un'identificazione dei due personaggi).

Snorri, nel tramandarci il mito della creazione di Askr ed Embla, anche disponendo di testi per noi perduti, aveva senz'altro presente la Profezia della Veggente e probabilmente identificava Hœnir e Lóðurr con Vili e . Tale identificazione era diffusa all'epoca di Snorri? oppure già allora creava delle difficoltà, per cui Snorri decise di non entrare in dettagli su chi fossero effettivamente gli dèi implicati nella creazione dell'uomo e lasciò un certo grado di ambiguità? Propendiamo per questa seconda scelta, anche perché in seguito Snorri chiamerà Hœnir col suo nome, distinguendolo chiaramente da Vili e spedendolo senza tanti complimenti come ostaggio ai Vanir. E in quanto a Lóðurr, per qualche ragione Snorri preferì sostituirlo con Loki (Arte poetica [1]).

Ritroviamo Vili e , citati quali fratelli di Óðinn, ne Gli insulti di Loki [26], dove Loki accusa Frigg di essere andata al letto con entrambi. Il che dovrebbe essere una prova sull'effettiva esistenza di due triadi distinte all'epoca della Profezia della Veggente. Nonostante siano state avanzate molte dotte proposte, specie in campo filologico, non si è giunti a nessuna conclusione e in mancanza di altri dati una soluzione definitiva non sarà mai raggiungibile. Per ora nulla ci vieta di identificare Hœnir e Lóðurr con Vili e . Ma nulla ci autorizza nemmeno a farne la chiave di volta di un'interpretazione di tali personaggi.

giovedì 23 agosto 2007

Orfeo ed Euridice

Orfeo, mitico citareda di Ridope, era figlio di Eagro, re della Tracia, e della musa Calliope (o secondo altri di Apollo e di Calliope). Il Dio Apollo gli donò la lira e le muse gli insegnarono ad usarla ed era talmente abile che lo stesso Seneca narra:

"Alla musica dolce di Orfeo, cessava il fragore del rapido torrente, e l'acqua fugace, obliosa di proseguire il cammino, perdeva il suo impeto ... Le selve inerti si movevano conducendo sugli alberi gli uccelli; o se qualcuno di questi volava, commuovendosi nell'ascoltare il dolce canto, perdeva le forze e cadeva ... Le Driadi, uscendo dalle loro querce, si affrettavano verso il cantore, e perfino le belve accorrevano dalle loro tane al melodioso canto ..."

Orfeo partecipò alla spedizioni degli Argonauti e quando la nave Argo giunse in prossimità dell'isola delle Sirene, vinse con il suono della sua cetra, la dolcezza del loro canto di modo che gli Argonauti non cedettero alle loro insidie.

Ma Orfeo è più noto per la grande impresa che lo fece scendere nell'Ade, per cercare di riportare in vita la sua sposa, Euridice. Egli infatti, amò in tutta la sua vita una sola donna: Euridice, filia di Nereo e di Doride. Il destino però non aveva previsto per loro un amore duraturo. Infatti un giorno la bellezza di Euridice fece ardere il cuore di Aristeo che si innamorò di lei e cercò di sedurla. La fanciulla per sfuggire alle sue insistenze si mise a correre ma ebbe la sfortuna di calpestare un serpente nascosto nell'erba che la morsicò, provocandole la morte istantanea.

Narra Pindemonte (Epistole: "A Giovani Pozzo")

"Tra l'alta erba non vide orrido serpe
che del candido piè morte le impresse."

Orfeo, impazzito dal dolore e non riuscendo a concepire la propria vita senza la sua sposa decise di scendere nell'Ade per cercare di strapparla dal regno dei morti. Convinse Caronte a traghettarlo sull'altra riva dello Stige e circondato da anime dannate che tentavano in tutti i modi di ghermirlo, giunse alla presenza di Ade e Persefone.

Una volta giunto al loro cospetto, Orfeo iniziò a cantare la sua disperazione e solitudine e nel suo canto mise tanta abilità e tutto il suo dolore che gli stessi signori degli inferi si commossero; le Erinni piansero; la ruota di Issione si fermò ed i perfidi avvoltoi che divoravano il fegato di Tizio non ebbero il coraggio di continuare nel loro macabro compito. Anche Tantalo dimenticò la sua sete e per la prima volta nell'oltretomba si conobbe la pietà come narra Ovidio nella Metamorfosi (X, 41-60).

Fu così che fu concesso ad Orfeo di ricondurre Euridice nel regno dei vivi a condizione che durante il viaggio verso la terra non si voltasse a guardarla in viso fino a quando non fossero giunti alla luce del sole.

Orfeo, presa così per mano la sua sposa iniziò il suo cammino verso la luce ma durante il viaggio, un sospetto cominciò a farsi strada nella sua mente pensando di condurre per mano un'ombra e non Euridice. Dimenticando così la promessa fatta si voltò a guardarla ma nello stesso istante in cui i suoi occhi si posarono sul suo volto Euridice svanì ed Orfeo assistette impotente alla sua morte per la seconda volta.

Narra Ovidio nelle Metamoforsi (X, 61-63)

Ed Ella, morendo per la seconda volta, non si lamentò; e di che cosa avrebbe infatti dovuto lagnarsi se non d'essere troppo amata? Porse la marito l'estremo addio, che Orfeo a stento riuscì ad afferrare, e ripiombò di nuovo nel luogo donde s'era mossa"

Invano Orfeo per sette giorni cercò di convincere Caronte a condurlo nuovamente alla presenza del signore degli inferi ma questi per tutta risposta lo ricacciò alla luce della vita.

Si rifugiò allora Orfeo sul monte Rodope, in Tracia trascorrendo il tempo in solitudine e nella disperazione. Riceveva solo uomini e ragazzi che istruiva all'astinenza e sull'origine del mondo e degli dei. Molte donne tentavano di catturare il suo cuore e tra queste alcune Baccanti. Quest'ultime, irate dalla sua indifferenza e istigate da Dioniso per la mancanza di devozione che Orfeo aveva nei suoi confronti, decisero di ucciderlo durante un'orgia bacchica. Arrivato il momento stabilito, si scagliarono contro di lui con furia selvaggia, lo fecero a pezzi e sparsero le sue membra per la campagna gettando la testa nell' Ebro

Disse Virgilio (Georgiche, IV):

"... anche allora, mentre il capo di Orfeo, spiccato dal collo bianco come marmo, veniva travolto dai flutti, <> ripeteva la voce da sola; e la sua lingua già fredda: <> chiamava con la voce spirante; elungo le sponde del fiume l'eco ripeteva <>."

Le pietre, le selve, gli uccelli piansero la morte del meraviglioso cantore e tutte le ninfe indossarono una veste nera in segno di lutto. Le Muse piangenti raccolsero le membra di Orfeo e le seppellirono ai piedi del monte Olimpo, là dove ancor oggi il canto degli usignoli è più dolce che in qualunque parte del mondo.


Poichè il delitto delle Baccanti era rimasto impunito, gli dei colpirono la Tracia con una terribile pestilenza. L'oracolo, consultato dalla popolazione su come porre fine a tanta tragedia, rispose che per farla cessare, era necessario ricercare la testa di Orfeo e rendere al cantore gli onori funebri. Il suo capo reciso fu così trovato da un pescatore presso la foce del Melete e fu deposta nella grotta di Antissa. In quel luogo la testa di Orfeo iniziò a profetizzare finchè Apollo, vedendo che i suoi oracoli di Delfi, Grinio e Claro non erano più ascoltati, si recò alla grotta e gridò alla testa di Orfeo di smettere di interferire con il suo culto. Da quel giorno la testa tacque per sempre.





Le lingue celtiche

Le lingue celtiche sono una sottofamiglia della famiglia linguistica indoeuropea. Dal punto di vista storico e geografico, le lingue si dividono in un gruppo continentale (ora estinto) e un gruppo insulare. Le lingue insulari si suddividono in due gruppi: il britonico (o britannico), che comprende bretone, cornico e gallese; e il goidelico (o gaelico), che comprende irlandese, gaelico scozzese e mannese.
Dalle Gallie e dalla Germania Occidentale il dominio delle lingue celtiche si estendeva nella preistoria (fino al secolo VI a.C.) a parte della Spagna, delle isole britanniche, dell’Italia settentrionale, fino all’Asia minore attraverso i Balcani.
L’espansione romana da sud e la pressione dei popoli germanici da est ebbero come conseguenza la scomparsa totale del celtico continentale. Sopravvivono solo i gruppi britonico e goidelico, nelle isole britanniche, in Bretagna e in alcune comunità americane.
La caratteristica fonetica che distingue le lingue celtiche da quelle indoeuropee è la perdita del suono indoeuropeo originario p. Una parola che in greco, sanscrito e latino presenta una p iniziale o intermedia, nelle lingue celtiche ne risulta priva: ad esempio al latino porcus corrisponde il goidelico orc. La differenza fra il gruppo britonico e quello goidelico risiede nel fatto che il secondo gruppo conserva il suono labiovelare indoeuropeo kw (scritto poi come c), mentre il britonico lo rende come p. Perciò l’irlandese cuig o coo-ig, "cinque" corrisponde al gallese pump
Le regole di pronuncia in tutte le lingue celtiche sono estremamente complicate; la grafia generalmente non corrisponde alla pronuncia e le consonanti iniziali cambiano in base al suono della parola che precede. In irlandese, per esempio, "sangue" è fuil, ma "il nostro sangue" è ar bhfuil. In gallese tad , "un padre", diventa fy nhad per "mio padre", ei thad per "suo (di lei) padre", e i dad per "suo (di lui) padre".
Tutte le lingue celtiche moderne usano l’alfabeto latino. Possiedono solo due generi, maschile e femminile, all’inizio della frase mettono sempre il verbo, esprimono l’agente sempre per mezzo del passivo impersonale.

BRETONE
La lingua bretone è attualmente parlata in Bretagna in vari dialetti; la maggioranza dei parlanti usa anche il francese. Sorta fra il IV e il VI secolo tra gli esuli in fuga dal Galles e dalla Cornovaglia, si distingue dal gallese e dal cornico della madrepatria per l’uso delle nasali e i prestiti del francese. Ebbe una particolare fioritura intorno alla metà del XVII secolo, quando furono pubblicate numerose grammatiche e una vasta letteratura di opere teatrali, leggende e ballate. Il bretone fu riconosciuto come materia scolastica negli anni Cinquanta di questo secolo. Negli anni Quaranta i parlanti furono stimati circa un milione, cifra che attualmente si è ridotta di circa la metà.

CORNICO
Il cornico, un tempo lingua della Cornovaglia, è estinto sin dalla fine del XVII secolo, nonostante recenti tentativi di riportarlo in vita. Ne sopravvivono tracce solo in alcuni nomi propri e alcune parole del dialetto inglese parlato in Cornovaglia.

GALLESE
Il gallese, chiamato cymraeg o cimirico (da Cymru, "Galles") dai suoi parlanti, è la lingua originaria del Galles ed è la più diffusa delle lingue celtiche. E’ parlato in Galles e in alcune comunità degli Stati Uniti e dell’Argentina.
Organizzazioni come la Società per la lingua Gallese hanno preservato la lingua dall’estinzione e si stanno battendo per farla riconoscere ufficialmente accanto all’inglese.
Come il bretone, il gallese ha perso molte desinenze di caso dei nomi; i verbi, invece, presentano una flessione particolarmente complicata. Il mutamento consonantico, o lenizione, cioè l’alternanza delle consonanti, gioca un ruolo notevole nel gallese come in tutte le lingue celtiche. La grafia è fonemica, cioè rappresenta in modo non ambiguo i singoli suoni della lingua. I parlanti gallesi dunque sanno quasi sempre pronunciare anche parole che non hanno mai visto prima.
Le parole gallesi sono accentate sulla penultima sillaba e hanno un’intonazione caratteristica.
Gli studiosi individuano tre periodi del gallese: antico (800-1100), medio (1100-500) e moderno (dal 1500). L’antico gallese sopravvive solo in parole e nomi isolati. Il gallese corrente Ha una varietà settentrionale e una meridionale, e i dialetti identificati come gallesi sono quaranta.

IRLANDESE
L’irlandese, o gaelico irlandese, è la lingua più antica del gruppo goidelico. L’irlandese può essere suddiviso in quattro periodi: antico (800-1000), medio-alto (1200-1500) e moderno (dal 1500). L’irlandese, che in origine era una lingua altamente flessiva, conserva essenzialmente due casi, nominativo e genitivo, mentre il dativo sopravvive nel singolare dei nomi femminili; i tempi verbali sono solo due nel modo indicativo. E’ parlata principalmente nella parte occidentale e sudoccidentale della Repubblica d’Irlanda, dove è una lingua ufficiale, e in parte anche nell’Irlanda del Nord; l’irlandese fu parlato in tutta l’Irlanda fino al XVII secolo. Nel secolo scorso, il numero di parlanti è sceso dal 50 al 20%.

GAELICO SCOZZESE
Verso il V secolo invasori portarono una forma di gaelico in Scozia, dove sostituì una più antica lingua britonica. A partire dal XV secolo, grazie agli apporti dal norvegese e dall’inglese, il ramo scozzese si differenziò notevolmente dall’irlandese, tanto da costituire una lingua separata.
L’alfabeto dell’irlandese e dello scozzese, di 18 lettere, è identico. Il gaelico scozzese usa quattro casi: nominativo, genitivo, dativo e vocativo. Come in irlandese, l’accento è sulla sillaba iniziale.
Due sono i principali dialetti del gaelico scozzese, quello settentrionale e quello meridionale, geograficamente distinti. Il dialetto meridionale è più vicino all’irlandese rispetto a quello del Nord, ed è più flessivo.

MANNESE
La lingua dell’isola di Man è considerata un dialetto del gaelico scozzese con forti influssi norvegesi. Il mannese fu parlato in tutta l’isola fino al XVIII secolo; le leggi sono tuttora scritte in mannese. Il suo declino cominciò nel XIX secolo, fino all’estinzione del XX.

Il calendario celtico

Giulio Cesare nel suo De Bello Gallico ci narra che i Celti contavano il tempo segnando le notti passate da un dato evento e non i giorni come facciamo noi. Essi, inoltre, dividevano l'anno in due sole stagioni: la stagione dei mesi neri (l'inverno) e quella dei mesi luminosi (l'estate).

I Celti, figli della notte, facevano iniziare l'anno nei mesi neri, l'inverno, con la festa sacra di Samhain.

Samhain (la notte che precede l'alba del 1° Novembre), indicata anche come Trinox Samoni era la festa più importante dell'anno celtico, la festa sacra per eccellenza che si protraeva per tre notti. Tra l'altro era considerata la notte in cui le porte dell'Altromondo si schiudono permettendo il transito tra i due piani della realtà. A Samhain, il tempo umano viene sospeso dall'intervento del Sacro, e questo rende possibile l'intrusione del fantastico nel reale.

Imbolc (la notte che precede l'alba del 1° Febbraio) era la festa delle greggi. Alle pecore monta il latte e il peggio dell'inverno sta passando. Corrisponde ai Luprecales romani festa della fertilità e di purificazione dalle "impurità" dell'inverno. La Festa di Imbolc non scompare, ma viene poi assorbita dalla festa cristiana della Candelora.

Beltane (la notte che precede l'alba del il 1° Maggio) è la festa dedicata al "Fuoco di Bel" come dice il nome, che richiama il Belenus Gallico, dio della Luce, segna la fine dell'Inverno e l'inizio dell'estate. Con l'annuncio della buona stagione, Beltane, per un popolo guerriero come i Celti, segnava anche l'inizio delle scorrerie e delle glorie d'armi.

Lughnasadh (la notte che precede l'alba del 1° Agosto) è la festa dell'Estate detta anche "assemblea per Lug". Durante i giochi e i banchetti in onore del Dio Lug avvenivano scambi commerciali e promesse di matrimonio; Lughnasadh era soprattutto il periodo delle assemblee plenarie del popolo, momento in cui venivano dibattute le cause ed emessi i verdetti.

Anche a un'osservazione superficiale, appare subito evidente come tutte le feste principali dei Celti cadessero una quarantina di giorni prima delle date di inizio astronomico delle stagioni, a conferma di un'evoluzione culturale dei Celti che da tempo si era ormai disgiunta dalle più antiche tradizioni dei primi agricoltori-cacciatori strettamente legati al ciclo stagionale. Il concetto di "tempo" non aveva infatti per i Celti lo stesso significato che ha per noi oggi o per le civiltà Greca e Romana a loro contemporanee.

Per i Celti, il tempo non era un assoluto, ma una variabile, una continua commistione tra tempo umano e tempo mitico, una variabile soggettiva dotata di una valenza filosofico-religiosa. Tra i molteplici compiti del Druido, saggio della Tribù, vi era dunque anche quello importantissimo di studiare gli astri, calcolare il calendario, stabilire i tempi migliori per la semina e per il raccolto, per mantenere la vita della tuatha in armonia con i ritmi divini.

Mitologia celtica

Cesare ci riferisce come i druidi usassero istruire i rampolli dei clan; una simile annotazione è presente anche nella mitologia irlandese, in numerosi testi. E' possibile che essi insegnassero con l'ausilio dei brani epici in versi; gli allievi erano dunque chiamati a comprendere i messaggi che vi si celavano, ma ciò, data anche la complessità delle loro metafore, non era semplice: sono testimoni di ciò due brani tratti da differenti versioni del Tain Bo Cualinge. In uno si afferma che Cathbad il druida insegnava a "più di cento persone sbalordite" mentre nell'altro si fa notare che solo "otto di essi erano capaci nelle scienze druidiche". Le allegorie del loro linguaggio non erano dunque facilmente comprensibili. In tali testi, presumibilmente gli stessi che ci sono tramandati sotto forma di epica eroica, erano presenti alla rinfusa "storia, teologia, filosofia, mitologia, diritto, costume, vaticini. Non sono assenti la grammatica, la geografia, l'etimologia soprattutto, ma ciò che colpisce di più in questa tradizione […] è il rifiuto di separare il mito dalla storia. Contrariamente ai Romani, i Celti hanno pensato miticamente la loro storia e, beninteso, hanno talvolta storicizzato i loro miti" (Jean Markale).

[…] Ciò detto, è possibile che i druidi abbiano volontariamente reso oscuri i loro racconti, in primo luogo per essere compresi solo da coloro che potevano comprenderli, e poi per effettuare in modo migliore una selezione tra coloro che bussavano alla porta della classe druidica". Diodoro Siculo scrive a questo proposito sui druidi: " Parlano poco nelle loro conversazioni, si esprimono per enigmi e nel loro linguaggio fanno in modo da lasciar indovinare la maggior parte delle cose. Essi utilizzano molto l'iperbole, sia per vantarsi essi stessi, sia per sminuire gli altri. Nei loro discorsi sono minacciosi, altezzosi e portati al tragico. Sono tuttavia intelligenti e capaci di istruirsi."
I racconti epici tramandatici giuntici in maggiore quantità- e, soprattutto, qualità- sono quelli del ciclo epico irlandese, strutturato a sua volta in diverse sezioni. E' grazie alla paziente opera di trascrizione dei monaci amanuensi cristiani che siamo giunti in possesso di questi testi, che pure hanno subito inevitabili alterazioni rispetto alla forma originaria per loro mano; la visione accentratrice della Chiesa cattolica ha causato notevoli mutamenti in parti considerate superstiziose o immorali, ma nel complesso le opere irlandesi sono comunque quelle più "pure" in nostra mano, se confrontate ad esempio con il Mabinogion gallese, che ha subito notevoli e pesanti influssi sia da parte della Chiesa, sia da parte della letteratura "cortese" medioevale, divenendo più simile ai romanzi di Chretien de Troyes che a un vero poema epico celtico.

Come già detto, la mitologia, oltre alla funzione di mero intrattenimento, era probabilmente una sorta di ermetica via di trasmissione dei principi druidici, dalla religione, alla legge, alla poetica, a tutti gli altri numerosi campi di insegnamento compresi nel druidismo. E' quindi ovvio che certuni miti non possano essere compresi appieno al di fuori di un punto di vista prettamente celtico, e in particolare druidico. La mitologia irlandese, proprio per la vastità di argomenti ed informazioni che contiene, costituisce uno dei maggiori documenti in nostro possesso riguardo alla società celtica. Possiamo trarre da essa numerosi spunti su differenti ambiti storici e sociali. Affronteremo ora i principali cicli epici, seppure in maniera molto più generale di quanto meritino.

L'arte celtica

Sul finire del secondo millennio avanti Cristo l'arte del bronzo era ampiamente padroneggiata dai fabbri europei come dimostrato dalla estrema raffinatezza dei decori presenti sui reperti archeologici di quell'epoca.

Nel periodo finale dell'Età del Bronzo e nella prima Età del Ferro, l'Europa Centrale ed Occidentale è dominata dalla cultura del popolo dei Campi d'Urne. Verso il 700 a.C. si sviluppa nel cuore continentale dell'Europa la antica cultura celtica di Hallstatt, caratterizzata da un'arte ornamentale semplice e rettilinea con moduli geometrici elementari.

Verso il 450 a.C. compare in tutta l'Europa un'arte nuova, uno stile omogeneo caratterizzato da una predilezione per le linee curve e le spirali, che prende il nome di "cultura di La Tène", dal nome della piccola spiaggia lacustre, presso Neuchâtel in Svizzera, ove furono scoperti i primi reperti.

Pur con variazioni regionali, la cultura di La Tène dura sino alla conquista delle Gallie Transalpine da parte di Caio Giulio Cesare che portarono la maggior parte del mondo celtico sotto l'influenza romana, dando quindi l'avvio al successivo sviluppo detto Gallo-Romano. Nelle isole Britanniche il maggiore isolamento dalla civiltà romana permise una più lunga sopravvivenza dell'impronta originale celtica che, in alcuni casi come l'Irlanda e il nord della Scozia, si protrasse sino al Medioevo.

L'Arte Celtica è la testimonianza più profonda ed autentica che gli antichi Celti ci hanno lasciato circa la loro mentalità ed il loro mondo spirituale. In essa è racchiusa l'essenza di una cultura originale che per quasi un millennio fu comune alle popolazioni insediate in quell'area d'Europa compresa tra il Mare del Nord ed il fiume Po, dall'Oceano Atlantico ai Carpazi.

Prima a seguito degli scambi commerciali con Etruschi, Fenici e Greci, poi a causa della Romanizzazione della Gallia e della Britannia, l'arte celtica si alimentò con prestiti orientali (quali la palmetta e il loto) che sviarono a tal punto le analisi degli studiosi, da farla considerare a lungo come una semplice emanazione marginale dell'arte classica. Le componenti essenziali dell'Arte Celtica contengono sin dagli inizi un limitato gruppo di simboli di base (spirali, triskel, croci cerchiate, svastiche, greche, intrecci vegetali e figure zoomorfe) che sono ripetuti e intrecciati tra loro infinite volte e secondo moduli codificati che portano alla costruzione di intricati pannelli e sofisticati decori artistici su ogni tipo di oggetto, sia prezioso sia di uso comune.

Solo in tempi moderni, grazie ad un'evoluzione del gusto artistico che ha permesso di apprezzare anche forme estranee al classicismo greco-romano, si è giunti a rivalutare appieno il simbolismo, il gusto per l'equivoco e per l'indeterminato, la stilizzazione, la predilezione per una libera rappresentazione delle figure che portò gli artisti celtici a giocare con linee e profili, anche a discapito delle forme naturali.

Verso la seconda metà del V° secolo a.C. compaiono armi e oggetti quotidiani decorati con incisioni a compasso detto "Primo Stile", ma è con l'inizio del IV° secolo a.C. che si può parlare dello sviluppo di una nuova corrente artistica detta "Stile Vegetale Continuo", o di Waldalgesheim, dove protagonisti divengono il viticcio ed il decoro vegetale, andando a sostituire progressivamente le composizioni di semplici elementi geometrici. Se consideriamo alcuni esempi di bande decorate a fregi tipiche di questo stile, notiamo subito alcune caratteristiche peculiari: l'abile utilizzo della simmetria; il permanere dell'utilizzo di elementi del primo stile accanto a motivi vegetali come palmette, foglie, tralci e viticci; un concatenarsi ossessivo di motivi vegetali ripetuti.

Elemento interessante di quest'arte fu il suo doppio livello di decorazioni e quindi di lettura simbolica di questa arte decorativa peculiare ove elementi vegetali e corpi di animali fantastici si assottigliano gradualmente, trasformandosi in nastri che si interlacciano tra loro con variazioni infinite che danno luogo ad uno stile artistico inconfondibile. Se si osservano i vari reperti archeologici, in particolare le armi, si nota subito una loro possibile suddivisione in base all'evidenza delle decorazioni, esiste evidentemente un livello macroscopico, che dà una lettura d'insieme dell'opera artistica celtica, con decorazioni vistose che declamano a tutti la ricchezza e la conseguente importanza sociale del possessore dell'oggetto in questione. Ma accanto ad esso vi è anche un secondo livello microscopico, caratterizzato da composizioni di minuscoli motivi decorativi secondari, pressoché invisibili ad un'osservazione superficiale.

Queste rappresentazioni a duplice scala, una estetica ed una visibile solo per il proprietario, chiariscono il significato non solo ornamentale, ma anche magico-simbolico degli elementi decorativi presenti su spade, elmi, scudi, pugnali, come pure su stele ed oggetti votivi.

Gioiello tipico ed emblema di status sociale, il torque (detto anche torc o torquis - vd. figura 7 di torque del 3/400 a.C., ritrovato in una sepoltura di guerriero del bacino della Marna, in Francia) era un collare ad anello in oro, in bronzo o più raramente in argento. Forse perché legato al potente simbolismo della sacralità delle teste, il torque ricevette le più grandi cure dagli artigiani celtici, ben più di braccialetti, spille o fibbie. Aperti o chiusi, con estremità ingrossate, a globi o decorate a testa d'animale; col corpo liscio, attorcigliato o intarsiato, nella realizzazione dei Torques per Principi e guerrieri fu profusa tutta l'abilità e la fantasia di quegli artisti.

Ciò che spesso si trascura di sottolineare è l'innegabile apporto all'Arte Celtica dato dall'area italiana (Gallia Cisalpina) e prova ne sono vari importanti ritrovamenti che hanno dato il loro nome a interi Stili della storia culturale dei Celti. Alcuni Autori avanzano l'ipotesi che il motivo stesso dei fregi a intreccio a bande sia stato creato negli atelier di artigiani celtici stanziati in centro Italia e poi da lì rapidamente diffuso in tutta Europa. D'altronde non si deve dimenticare che il primo millennio fu un periodo di rapidi e frequenti spostamenti di mercanti, tribù e persino di interi popoli. Dopo gli stanziamenti di genti celtiche in buona parte della penisola italica sul limitare del primo millennio, le infiltrazioni come le migrazioni continuarono ininterrottamente, in modo più o meno limitato, sino alle nuove grandi ondate migratorie del V secolo a.C. quando sul substrato celtico precedente vennero a stratificarsi le grandi nazioni dei Boi, degli Ambroni, dei Senoni, provenienti dalle Gallie Transalpine ove avevano lasciato dei parenti (le loro tuatha originarie) e con cui intrattennero per lungo tempo fitti contatti con scambi sia culturali sia commerciali. È quindi più che probabile che anche le nuove mode e i nuovi stili artistici circolassero ampiamente insieme alle merci e agli artigiani itineranti per l'universo celtico che nel periodo a cavallo tra il IV e il III secolo a.C. si estendeva ormai dal Mediterraneo al Baltico, dall'Atlantico ai Balcani.

Si è detto dell'Arte Celtica che essa sia stata caratterizzata dalla contaminazione delle forme viventi ad opera del simbolo inorganico; certo è che di essa non si può dire che sia arte naturalistica. Trattando figurazioni zoomorfe o vegetali, l'artista celta compie una deformazione sistematica, quasi si sforzasse di evitare coscientemente la rappresentazione realistica della natura.

Il valore della donna nelle tribù celtiche

LA FIGURA FEMMINILE
Quella delle opere d'arte, però, nonostante gli ineguagliabili monili prodotti dai Celti, non era certo l'unica bellezza riconosciuta da questo popolo. La mitologia è letteralmente traboccante di toccanti descrizioni dello splendido aspetto sia degli eroi…di cui viene accentuato spesso, in questo modo, il contrasto tra la natura- le scene in cui si abbandonano al terrificante furor guerriero- e cultura, in lunghi brani che li raffigurano durante le parate o i banchetti, magnificamente agghindati…sia delle donne, delle quali vengono esaltati tanto l'apparenza, talmente superba da far sì che i guerrieri rischino la vita per loro, quanto il carattere indomito e bellicoso.
Nella cultura celtica, le donne erano amate e rispettate, ma esse godevano anche di libertà e diritti impensabili per qualsiasi matrona classica. "Dione Cassio narra di un incontro tra Giulia Domna, moglie dell'imperatore Severo, e una anonima donna caledone. La contegnosa patrizia canzona la sua interlocutrice (…). Questa rispose, con una certa asprezza, che le abitudini del suo popolo erano ben superiori a quelle romane. Poiché tutto si svolgeva in modo franco e chiaro, [lei e le sue sorelle] potevano unirsi senza vergogna ai migliori tra gli uomini. Le matrone romane, invece, con la segretezza che i loro ipocriti modelli di rispettabilità imponevano, potevano trovarsi degli amanti solo tra coloro disposti ad indulgere in relazioni segrete." (W. Rutherford, "Tradizioni Celtiche").
Inoltre, dato che era la ricchezza a determinare l'autorità di una persona, all'interno di un matrimonio la moglie poteva anche essere il coniuge più importante, anche se ciò non era sempre accettato: la regina mitologica Medb costituisce un esempio di questo, ma nella mitologia non se ne trovano altre dimostrazioni, in quanto una pratica simile era spesso sconsigliata in una cultura originariamente patriarcale. L'indipendenza delle donne era in ogni caso riconosciuta ed approvata, sebbene, come si è visto, era raro che queste giungessero a dominare il marito nel rapporto di coppia. Innumerevoli nella mitologia sono le praticanti delle arti druidiche, e così anche le guerriere (che cessarono di esistere in Irlanda solo poco prima del 1000 d.C. sotto l'influsso del cristianesimo, con l'Editto di Tara).

LE AMAZZONI

Ecco la descrizione di Feidelm, profetessa e guerriera: "Aveva i capelli biondi. Indossava un mantello variegato trattenuto da un fermaglio d'oro e una tunica con un cappuccio dal bordo decorato di rosso. Portava calzari con legacci dorati. Il volto era sottile in basso e ampio alla fronte. Le delicate ciglia scure ombreggiavano metà del viso fino alle guance. Le labbra sembravano tinte di rosso scarlatto. I denti tra le labbra erano una cascata di perle. I capelli erano acconciati in tre trecce: due avvolte intorno alla testa, la terza che ricadeva sulla schiena fino a sfiorare i polpacci. La donna teneva in mano una bacchetta di findruine [ probabilmente elettro ] con intarsi d'oro. In ogni iride erano incastonate tre pietre preziose. Era armata, e due cavalli neri conducevano il suo carro da guerra."
In questo brano si evidenzia la considerazione che i Celti nutrivano nei confronti della bellezza femminile, per la quale diversi eroi sono pronti a compiere imprese suicide, e contemporaneamente si accenna anche al fatto che Feidelm fosse armata, e viaggiasse su un carro- privilegio, questo, riservato all'aristocrazia guerriera e simbolo di potere e di forza. Esiste un gran numero di riferimenti ad amazzoni nella mitologia: lo stesso Cù Chulainn apprende tutte le sue prodezze da una anziana guerriera scozzese, Scatàch; è la figlia di questa, Uathach la Terribile, che, innamoratasi di lui, gli spiega come sopraffare la madre; ed infine è Aife, amazzone avversaria di Scatàch, a combattere Cù Chulainn spezzandogli la spada. D'altro canto, anche gli antichi Greci conobbero la feroce figura della guerriera celtica e la descrissero in diversi testi, come, ad esempio, il resoconto del sacco di Delfi ad opera di Brenno. E furono queste strane donne del nord a ispirare nei Greci il personaggio mitologico delle Amazzoni, che divenne l'archetipo della "donna forte" da sottomettere nei racconti per dimostrare la loro virilità, che non si esprimeva certo al meglio con le sottomesse mogli, rinchiuse nel gineceo, che si ritrovavano.
E' perciò dai Celti che deriva anche la classica figura dell'amazzone, la donna guerriera per eccellenza: all'interno della loro società la donna aveva diritti paragonabili a quelli dell'uomo: poteva ad esempio detenere beni suoi che, in certi casi, erano addirittura superiori a quelli del marito, sebbene questo fosse, per lui, degradante e venisse perciò evitato; e, in caso di separazione dei due coniugi, a lei spettava la metà del patrimonio collettivo della coppia, oltre a tutti i beni che aveva portato in dote. Ci sono inoltre giunte testimonianze di come una donna potesse anche ottenere il potere politico, e, come già detto, le donne guerriere erano quanto mai comuni. Feroci nei confronti dei loro nemici, sono presenti in gran numero nella mitologia e hanno colpito a tal punto la civiltà classica…e la nostra…da essere diventate un carattere ricorrente sia nelle leggende latine e greche, sia nella moderna fantasy.

LE DRUIDESSE

D'altro canto, come la stessa descrizione di Feidelm suggerisce, le donne potevano anche entrare a far parte della classe druidica . Ci è tramandato dalle fonti classiche che, nell'isola di Mona, durante l'attacco dei Romani, si trovavano druidi, non solo di sesso maschile, ma anche femminile, che suonavano le grandi arpe da guerra e salmodiavano per terrorizzare gli invasori. Anche la mitologia, inoltre, è ricca di riferimenti a druidesse, spesso specializzate come satiriste, indovine, maghe e, appunto, profetesse.

I guerrieri e le armi fra i celti

Il popolo celtico era formato da centinaia di tribù che si combattevano senza sosta, e che consideravano l’onore come un tesoro inestimabile, da difendere a qualsiasi prezzo, e la guerra come un piacevole passatempo volto a mantenere attivi i propri nobili e, nel contempo, a procurarsi ingenti ricchezze dagli sconfitti. Dall’epica mitologica celtica…tra la quale spicca per completezza e splendore quella irlandese…possiamo desumere un ritratto del guerriero non dissimile da quello tracciato, con timore e ammirazione, dagli scrittori latini. Un uomo possente, abile nel combattimento e amante delle feste, di cui la società riusciva ad incanalare l’ardore con un ferreo sistema di regole e codici di comportamento, e che, in battaglia, sfoderava tutto il furor che era costretto altrimenti a sedare, sgomentando i nemici che non conoscevano la sua razza con terrificanti ostentazioni di selvaggia potenza e incredibile orgoglio, giungendo a combattere, come accadeva presso i Galli continentali e, almeno agli inizi, anche nelle tribù britanniche e irlandesi, nudo, in segno di sprezzo del pericolo e di sfoggio della propria forza e virilità, e tracciando sul proprio corpo con il guado simboli e spirali che spaventavano chiunque lo vedesse. O appendendo per i capelli al proprio carro da guerra le teste dei nemici uccisi, mozzate per esibirle quale trofeo.
Un costume abbastanza sinistro, che non mancò di impressionare debitamente Greci e Latini: questi trofei venivano inchiodati anche, di solito, alle architravi delle porte, e più tardi anche quando questo uso scomparve rimase quello di far scolpire sulle architravi, e sui capitelli, simboliche teste recise. Si conoscono peraltro simili lavori scultorei anche per periodi in cui la pratica della decapitazione era ancora attiva: non dimentichiamo che essa scomparve in Gallia ed in Britannia solo con la romanizzazione, ed in Scozia e Irlanda con la conversione al cristianesimo, e sono presenti teste scolpite anche risalenti a epoche precedenti.
I guerrieri celtici indossavano spesso manti di tartan, la cui tintura avevano appreso dagli Sciiti, e si lasciavano crescere i baffi impomatati abbastanza da poterli usare come filtro per le bevande. Erano uomini imponenti, alti e forti, e le loro lunghe capigliature chiare, unitamente alle enormi spade a due mani ed agli alti scudi, impressionarono notevolmente i loro contemporanei classici, piccoli di statura e scuri di pelle. Oltre alla pesante spada a doppio taglio, un guerriero era in genere armato con diverse daghe portate alla cintura, uno o più giavellotti non più lunghi di un metro e una grande lancia dalla punta di ferro. I guerrieri celtici di rango più alto andavano a combattere su un rapido carro da guerra, simbolo del loro potere, che aveva una notevole forza di penetrazione quando, a grande velocità, si scontrava con la prima linea dell’esercito nemico, creando scompiglio e falciando decine di uomini con le ruote falcate e con le armi del guerriero, che poteva guidare da sé il veicolo o lasciare il compito ad un auriga, rimanendo di fianco a lui.
Per un guerriero, come nella migliore tradizione fantasy, l’onore rappresentava tutto; un uomo si valutava in base ad esso, e, difatti, uno degli strumenti più pericolosi nella società celtica era la satira, un particolare canto dei poeti che, deridendo un uomo, ne causava l’allontanamento dalla società e, spesso, perfino la morte, autoinflitta più o meno consciamente. Ogni guerriero era tenuto a difendere, a prezzo della vita, il suo onore, insieme a quello del suo clan e del proprio popolo.

LE ARMI

SPADE
Un altro archetipo fantasy, le classiche spade incantate, giunge in effetti dalla tradizione folcloristica celtica. Si legge, in un brano della “Seconda battaglia di Mag Tured: “Fu alla battaglia di Mag Tured che Ogmè il campione trovò Orna, la spada di Tethra, uno dei re dei Fomoire. Ogmè la trasse dal fodero e la pulì. Allora la spada riferì le imprese che aveva compiuto. A quel tempo era infatti comune che, quando una lama fosse snudata, rendesse note le gesta che, grazie ad essa, erano state intraprese. Per questo le spade, una volta snudate, hanno diritto al tributo della pulitura, ed è sempre per questa ragione che vi si conservano degli incantesimi. Ora, il motivo per cui i demoni solevano allora parlare attraverso le spade era che le armi venivano venerate dagli uomini ed erano usate come salvaguardia.” Il nome “demoni” è, ovviamente, una manipolazione dell’amanuense cristiano addetto alla copia del manoscritto; in ogni caso, è probabile che esistesse una credenza secondo cui le armi fossero abitate dagli spiriti, o avessero comunque un’anima. L’accenno alla venerazione delle armi, invece, fa forse riferimento ad un vero e proprio culto delle spade, alle quali ci si rivolgeva nei canti e su cui si pronunciavano i giuramenti, nella convinzione che l’arma si sarebbe rivoltata contro eventuali bugiardi. L’esistenza di spade e armi “magiche”, infine, è più che nota: basti pensare alla spada Caladbolg di Fergus Mac Roìch, la Dura e Lucente, in grado di tagliare perfino le rocce- dalla quale deriva la Excalibur del ciclo arturiano- o alle numerose lance incantate come Luin, in grado di prevedere l’esito di una battaglia o di scatenare incendi, armi, queste, sulle quali ritornerò comunque. Le ampie lame delle spade celtiche potevano raggiungere anche il metro di lunghezza: armi davvero temibili. In un primo tempo esse erano usate unicamente per colpire di punta, e le loro dimensioni erano pertanto più ridotte; poi si ingrandirono, in modo tale da potere anche fendere con ambo i tagli, ed in seguito, nella loro terza fase, si allungarono ulteriormente e le punte divennero smussate, permettendo di colpire- seppure con devastante potenza- unicamente di taglio. Le else celtiche avevano una conformazione del tutto particolare, differente da quella tipica del medioevo europeo- che rendeva la spada in un certo qual modo simile ad una croce- tendente più ad una forma ad X, a volte antropomorfizzata con una testa scolpita tra i due bracci superiori, a loro volta foggiati in modo tale da divenire simili a braccia. Le spade finora descritte erano quelle, presenti sia nell’epica sia, e soprattutto, nei sepolcri, forgiate espressamente per la guerra. Sono presenti però anche altre spade, da parata, di dimensioni notevolmente più piccole- circa la metà- ricche di intarsi e decorazioni, sia sull’elsa che sulla lama, che potevano essere realizzate in ferro ma anche in bronzo o oro, e costituivano più che altro uno “status symbol” ed oggetto di esibizione.
Nel Tàin Bo Cuailnge, nello splendido brano intitolato “Il carro falcato ed il grande massacro di Mag Muirthemne”, Cù Chulainn si munisce in modo a dir poco abbondante, e tra le armi che prende con sé vi sono “le sue otto piccole spade e la spada dall’elsa d’avorio e la lama brillante”. Questa testimonianza può essere sufficiente: i Celti non riponevano comunque fiducia nelle piccole armi da parata, preferendo affidarsi alle ben più letali spade da guerra.
Anche i foderi delle spade erano decorati con tarsie e rappresentazioni zoomorfe o antropomorfe- si può ammirare un bellissimo lavoro di questo tipo sul fodero di una grande spada celtica ritrovata a Hallstatt .immagine a pag 83 Sia la mitologia che gli autori classici descrivono come i foderi fossero spessi assicurati con pesanti catene di ferro, d’argento o di bronzo, appese all’altra estremità alla cintura o alla armatura del guerriero; tali catene avevano comunque funzioni principalmente ornamentali.

IL GIAVELLOTTO
Altra arma di grande importanza per l’eroe celtico è il giavellotto; nell’epica irlandese ne esistono numerosi incantati, come il gae bolga di Cù Chulainn, la cui punta si apre in ventiquattro arpioni quando colpisce, o la deil chliss, che confondeva la vittima, rendendola incapace di distinguere la direzione da cui proveniva l’arma, per poi ucciderla. Diodoro Siculo scrive come i giavellotti celtici avessero punte più lunghe dei gladi romani. Durante le battaglie, i due eserciti, prima che avvenisse lo scontro fisico tra i guerrieri si scagliavano vicendevolmente i giavellotti, spesso anche dai carri da guerra in corsa. Persino durante l’attacco alle fortezze, i guerrieri utilizzavano i giavellotti, sia scagliandoli dalle mura nel caso dei difensori sia, per gli attaccanti, azzardandosi a tirarli da terra o posizionandosi in un luogo più alto rispetto alla fortezza e quindi bersagliandola. A volte, queste armi sono confuse con i “dardi di guerra”, una loro versione più piccola che aveva però suppergiù la stessa funzione.

LE LANCE
Anche le lance erano abbondantemente utilizzate; Diodoro riferisce le loro grandi dimensioni, che sono peraltro descritte anche nell’epica, sia pure con la consueta esagerazione tipica dei Celti- la lancia di un eroe è più volte paragonata al palo centrale della dimora di un re, oppure all’asta di un giogo per buoi. Queste le parole di Diodoro Siculo: “ Le lance che brandiscono in battaglia che loro chiamano lanciae hanno punte di un cubito o più di lunghezza e poco meno di due palmi di larghezza […]” La mitologia celtica insiste molto anche sul numero e sulle dimensioni dei rivetti, ossia i chiodi ribattuti che si trovano sull’asta sotto alla lama, e che hanno sia una funzione puramente estetica, sia quella di far sì che l’arma rimanga conficcata nel corpo della vittima in modo tale che, strappandosela via, questa non possa far altro che causarsi terribili lacerazioni e ferite. Allo stesso scopo, spesso la lama era seghettata o ondulata.

ARCO
Al pari degli Achei dei primi secoli, anche i Celti, nonostante i loro numerosi contatti con gli Sciiti, da sempre formidabili arcieri, disapprovavano grandemente l’uso di quest’arma, ritenuta adatta solo a uomini incapaci di combattimenti onorevoli faccia a faccia.

SCUDO
Lo scudo, spesso ogivale, era realizzato in legno con una nervatura per rinforzarlo, bordato con una striscia di bronzo o ferro e dotato di un grande umbone metallico al centro. Nell'epica irlandese si accenna anche all 'uso di affilare il bordo dello scudo, tanto che uno dei giochi di abilità dei guerrieri era il colpire contemporaneamente con il bordo dello scudo, la lancia e la spada; in ogni caso, è probabile che l'uso dello scudo sia stato presto abbandonato, in quanto pesante- gli scudi celtici potevano essere alti come un uomo- e di poco riparo: il suo spessore, infatti, era assai misero e forniva quindi ben poca protezione. Con il tempo, perciò, questo strumento di difesa cadde in disuso dato anche il suo impedimento alla mobilità ed alla velocità, caratteristiche, queste, che costituiva una componente indispensabile dei guerrieri celtici.

COSTUME

I guerrieri usavano vestirsi con ampie tuniche di cuoio o di stoffe variopinte, brache, mantello fermato da una fibula e stivali. Le grosse corazze (che pure c'erano) erano poco usate, in quanto costose e troppo pesanti per uomini che preferivano affidarsi sì alla potenza, ma anche a rapidità ed agilità. Era invece possibile che fossero usati bracciali di ferro o di cuoio bollito. Di certo esistevano le cotte di maglia (armature formate da anelli di ferro intrecciati), che furono inventate dai Celti e più tardi imitate dai Romani; esse furono la protezione più usata per tutto, o quasi, il medioevo europeo.
Anticamente i Celti combattevano completamente nudi, in segno di totale disprezzo della morte; in seguito questo uso è stato abbandonato da molti, come si evince anche dal brano del Tàin Bo Cuailnge in cui i giovani guerrieri Connachta deridono il vecchio Iliach a causa della sua nudità. Sempre questo testo ci fornisce anche informazioni sulle protezioni utilizzate, in Irlanda, dai guerrieri: esse non dovevano costituire un impaccio e riuscire a difendere discretamente chi le indossava. Nel brano già citato “Il carro falcato ed il grande massacro di Mag Muirthemne” le protezioni di Cù Chulainn sono queste: diverse tuniche sovrapposte di pelle incerata, “rigida e compatta” (tenute aderenti al corpo, nel caso specifico di Cù Chulainn, con lacci, corregge e corde in modo che non se le strappasse via di dosso in preda al riastràd- vedi sezione sulla mitologia), un cinto di cuoio da battaglia a protezione di vita e torace, fatto con “la parte migliore della pelle dei fianchi di sette vitelli di un anno”, due “grembiali” sovrapposti, il primo di seta e l’altro di flessibile cuoio di mucca, ed un’altra cintura da battaglia. L’equipaggiamento dell’auriga è invece decisamente, in ogni caso, meno pesante: Laeg Mac Riangabair, il confidente ed auriga di Cù Chulainn, veste con “una tunica di pelle leggera come l’aria, pelle di daino cucita in modo saldo ed elastico, che non gli impacciava i movimenti delle braccia”, sulla quale porta un mantello di piume di corvo, attribuito dal Tàin a Dario il Persiano o all’imperatore romano Nerone, ed un “elmo crestato, squadrato, piatto, di vari colori e forme, che gli scendeva oltre metà della spalla” come ornamento. Sulla fronte, poi, Laeg si pone una fascia di fili dorati “per distinguersi dal suo padrone”. Tutto il carro da guerra, inoltre, è irrobustito da Laeg con spuntoni, lame ed uncini, e così pure i cavalli con una armatura di ferro, sebbene non mi risulta che arnesi simili siano mai stati ritrovati; essi potrebbero essere interpolazioni di un copista o che la tradizione ha sviluppato più tardi, per quanto, in effetti, molti oggetti senza dubbio esistiti non siano ancora venuti alla luce tramite le ricerche archeologiche, e non è detto che un discorso del genere non vada fatto anche per questi. Gli aurighi, per mostrare la propria spericolatezza ed abilità, correvano, con i cavalli lanciati al galoppo, lungo tutta l’asta del carro, quindi si voltavano e tornavano indietro; la mitologia, come anche la storia, celtica, è ricca di simili dimostrazioni, chiamate “prodezze” nei testi epici ma non sempre spiegati. Altri attributi degli aurighi erano la capacità di “fendere dritto”, ossia mantenere sempre la giusta strada, “saltare alto”, cioè riuscire a condurre il carro anche su terreni estremamente accidentati, ricchi di balzi e fosse, e “dare il giusto colpo di frusta”. La leggenda vuole che Laeg riuscisse a guidare rimanendo voltato indietro per giocare, nel frattempo, con Cù Chulainn a fidchell, sorta di scacchi, e vincere una partita ogni due.

PRODEZZE GUERRIERE

Le “prodezze” dei guerrieri erano però ben altre. Si trovano spesso, negli elenchi, lunghe enumerazioni di “prodezze” che non vengono però spiegate, come ad esempio la “prodezza del tuono” ed altre. Altre, invece, lo sono: ad esempio la “prodezza del salmone”, con la quale Cù Chulainn spiccava un balzo imprimendosi una forte torsione, ruotando su sé stesso su un asse parallelo al suo corpo. Oppure il già spiegato “gioco del bordo”, nel quale si fendeva contemporaneamente con lancia, spada ed il bordo affilato dello scudo. Alcune, poi, sono ancora più improbabili, come la capacità di stare in equilibrio sulla punta di una lancia o di scagliare una pietra in modo tale da colpire sia con il tiro, sia con il rimbalzo (il “colpo di ritorno” con il quale Cù Chulainn aveva ucciso, da giovane, dodici cigni selvatici). Gli scrittori latini citano, a proposito dei guerrieri celtici, il tipico furor guerriero che li caratterizza; esso è paragonabile, in un certo qual modo, con la furia dei più tardi berserk vichinghi.
Nella mitologia irlandese, il furor (chiamato qui “riastràd”, cioè “deformazione”) è un attributo soprattutto di Cù Chulainn, e viene molto enfatizzato: accade così che durante la trasformazione il giovane subisca un rivolgimento interno di tutte le ossa ed uno spostamento dei muscoli, che, tra l’altro, si gonfiano a dismisura. Un occhio è spesso “risucchiato all’interno della testa”, e l’altro diviene talmente sporgente da cadere quasi sulla guancia. I capelli si rizzano (particolare, questo, in cui si ravvisa una citazione dell’usanza celtica di pettinarsi bagnandosi i capelli con la calce e spazzolandoli quindi all’indietro, così da renderli irti e più spaventosi), e dalla testa si sprigiona una nebbia sanguigna. In questo stato, il giovane può attaccare gli amici come i nemici, e si aliena completamente da qualsiasi emozione che non sia la gioia della battaglia.
Diversi sono, comunque, i guerrieri che hanno anche attributi caratteristici sovrannaturali, come ad esempio Fer Diad, l’amico d’infanzia di Cù Chulainn, da questi poi ucciso, la cui pelle in combattimento diventava di corno.

REGOLE DI GUERRA

La guerra costituiva, come già detto, il principale passatempo dei Celti, ed essa era regolata da regole ferree basate soprattutto sull’onore. Si strutturava in singole scorrerie più che in campagne militari vere e proprie, e vi erano alcune diffuse “leggi non scritte” come, ad esempio, l’evitare di spodestare le stirpi al potere o di invadere un territorio in modo permanente, limitandosi a dimostrare la propria supremazia sui suoi abitanti; era preferibile, inoltre, che i guerrieri di rango più elevato non fossero uccisi ma catturati (E’ bene notare come, presso i Celti, gli ostaggi venissero trattati con una cortesia enorme, pari a quella che si può avere per un figlio, e ad essi erano offerti il cibo e gli alloggiamenti migliori per accrescere la propria fama di uomini generosi e leali). I guerrieri dovevano affrontarsi in scontri non troppo impari; nel Tàin Bo Cuailnge capita spesso che Cù Chulainn si vendichi in modo brutale quando i sovrani del Connachta inviano contro di lui gruppi di uomini numerosissimi per ucciderlo. Questa regola d’onore era chiamata fìr fer, ossia “impegno d’onore degli uomini”.
I Celti facevano molto affidamento sul terrore che la vista di simili guerrieri spargeva tra i popoli loro nemici. In battaglia, l’aristocrazia guerriera scendeva in campo sui rapidi carri da guerra, che venivano usati prima dello scontro per sfoggiare la propria abilità e costituivano, inoltre, la prima linea che veniva a contatto con lo schieramento nemico, penetrando in profondità con la loro grande forza d’urto. In seguito, i guerrieri scendevano e combattevano a piedi con le lance e le lunghe spade, seguiti dal resto dell’esercito che caricava contro i nemici sulla scia dei carri.
Prima delle battaglie in campo aperto tra tribù celtiche era quindi usanza molto diffusa cercare di impressionare il nemico con giochi atti a dimostrare il proprio valore, per evitare di spargere il sangue della propria razza. A volte allo scontro si preferiva ovviare con un duello singolo tra due campioni.
In altre zone, come in Gallia, si preferiva fare invece affidamento su una cavalleria leggera, rapida e potente, che fu imitata poi dai Romani e da tutti gli eserciti medioevali. Nella mitologia irlandese sono presenti accenni a belve feroci come orsi, cinghiali e lupi, che, catturate prima della battaglia, erano poi liberate contro l’esercito nemico, a volte con le zanne cosparse di veleno.
Durante l’assedio a fortificazioni nemiche, quindi anche di tribù celtiche avversarie, i guerrieri si arrampicavano su scale di legno, mentre i loro compagni, posti in circolo intorno agli spalti, ne bersagliavano i difensori con pietre e giavellotti “ponendo in tal modo il nemico nell’impossibilità di difendersi. […] Catrame bollente e tizzoni imbevuti di sego, passati di mano in mano, erano gettati contro le fortificazioni nemiche per provocare incendi” (J. Filip).
La sconfitta di un popolo così forte in battaglia, perciò, chiaramente non va attribuita al suo scarso valore, alla poca perizia tattica o all’incapacità di resistere ai Romani (in effetti, Vercingetorige, ad esempio, vinse gran parte delle battaglie che combatté…ma perse la guerra a causa della sconfitta ad Alesia). In realtà, essa deriva in gran parte dalla fortissima tendenza celtica al particolarismo ed al frazionamento: questo popolo perdette paradossalmente la libertà proprio a causa della incredibile libertà ed autonomia di cui godevano le centinaia di tribù e gli infiniti clan. Questo, in linea di massima, può essere vero tanto per le zone continentali quanto per quelle insulari (Irlanda e Scozia). Per di più, in Gallia la sconfitta celtica fu determinata anche dalla sottile politica “culturale” attuata dall’Impero, con conseguente rapido decadimento del fisico e dell’ardore guerriero celtico a causa dell’influenza sempre maggiore del comodo stile di vita del sud. Ciò è pienamente riconosciuto dallo stesso Cesare e dai suoi contemporanei latini, che paragonarono i Galli, ormai corrotti dal lusso dell’Impero Romano, ai Germani, apprezzando la maggiore componente “selvaggia” e dura di questi ultimi, vissuti lontano dalle frontiere romane.
Non vi è dubbio che ciò sia vero, ma del resto un simile paragone può essere tranquillamente fatto anche per le tribù celtiche di Scozia ed Irlanda, che l’Impero non riuscì mai a sottomettere. Per quanto riguarda la Scozia, essa fu poi assorbita dall’Inghilterra; l’Irlanda, in un certo qual modo, non ha mai cessato di essere celtica, pur accettando spontaneamente la religione cattolica al posto del druidismo, e la dominazione inglese è stato più che altro un manto superficiale che oggi l’isola cerca di scrollare via dalle proprie spalle. Il valore guerriero che queste popolazioni non persero mai fece sì che, ancora nella prima guerra mondiale, le truppe scozzesi con i loro kilt e gli irlandesi in livrea nera terrorizzavano follemente i tedeschi, che soprannominarono i primi “le signore dell’inferno”, con evidente riferimento al peculiare costume che li caratterizzava.

Secondo Herm, invece, la causa maggiore delle sconfitte celtiche fu che questo popolo, cosciente della propria netta superiorità, tanto bellica- dopotutto, aveva sottomesso con facilità Roma, sotto la guida di Brenno, e razziato Delfi, e si era ancora prima imposto su buona parte dell'Europa- quanto creativa- nel giro di quattro generazioni, "quasi un gioco", essi crearono di punto in bianco, con la fase di La Tène, una delle culture più brillanti, anche dal punto di vista artistico, della storia, abbia "troppo confidato" in essa, "invece di accollarsi il duro compito di organizzare e sfruttare con metodo le proprie risorse" (G. Herm, "Il mistero dei celti"). Non ha tutti i torti. Scrive qualche paginaoltre: "[...] Da qui si spinsero a Roma, a Delfi e in Asia Minore. I nuovi signori che sembravano in procinto di assoggettare a sé, quasi d'un balzo, il nostro continente pressoché per intero: slancio che avrebbe prodotto- se tale movimento fosse stato guidato da una volontà- uno dei massimi imperi della storia europea". Ed ecco ancora comparire la colpevolezza delle fortissime rivalità fra clan, tribù, famiglie e fazioni che caratterizzarono i Celti dall'inizio alla fine. Prosegue Gerard Herm: " Ma poi la tempesta si calmò, la forza dei rapidi assalti si esaurì, e rimase solo una serie di industriali di aspirazioni borghesi, manifestamente sprovveduti sia della capacità di integrazione politica degli antichi principi hallstattiani, sia di brillanti condottieri come Brenno e Aneoresto". La fine di una rivoluzione che avrebbe potuto cambiare il mondo.